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Spalletti (foto As Roma)

(T.Riccardi) – Luciano Spalletti non è stato solo un allenatore di calcio per questa città. È stato tanto altro. Di certo non uno di passaggio. Proprio no. È il terzo tecnico della storia con più panchine dopo Nils Liedholm e Fabio Capello (in questo campionato può superare il manager di Pieris diventando secondo). Detiene il record societario di vittorie consecutive in un torneo: 11, conseguito nel campionato 2005-2006. E di successi nelle coppe europee, 24. È stato l’ultimo ad alzare al cielo un trofeo nel 2008 (la Coppa Italia) e – prima di Ranieri – andò a tanto così da uno scudetto che sarebbe stato meritato. È tornato dopo 2326 giorni – sei anni e “un pezzettino” – per compiere qualcosa di importante. Ha fatto divertire il pubblico giallorosso con un calcio innovativo, entrato nel cuore degli “sportivi” e diventato un nuovo punto di partenza tattico per i tecnici europei. Ha fatto impazzire gli avversari con quel sistema di gioco – 4-2-3-1 – senza riferimenti fissi offensivi mandando in tilt le difese d’Italia e d’Europa. Ha fatto innamorare i tifosi con un suggestivo accento toscano condito da parole chiave esclusive del suo lessico. La prima fu “normalità” dopo cinque allenatori cambiati in un anno. Poi, le “situazioni” e i “comportamenti giusti” da seguire per i calciatori meno disciplinati. Voleva che le sue squadre si aggiudicassero la Coppa Disciplina. Non sopportava “i riportini”, coloro che spifferavano notizie all’esterno del centro sportivo di Trigoria. Amava ripetere “tanta roba” per descrivere qualcosa o qualcuno bello, forte o fuori dal comune. Invitava gli elementi della rosa a “raspare il fondo del barile”, per dire di andare a pescare risorse inaspettate anche se mancava benzina. Spalletti è questo, ma soprattutto un insegnante di calcio. Ecco perché.

IDEA TATTICA – Da un punto di vista calcistico ha poco da imparare e tanto da insegnare. Un certo Alex Ferguson lo definì “fantastico” qualche tempo fa. Il suo credo tattico non è fatto soltanto di 4-2-3-1 come fece a Roma anni fa. Ha sempre dimostrato di saper adattare le proprie idee ai calciatori a disposizione. Il modulo sopra citato nacque una notte di dicembre a Genova per mancanza di attaccanti puri. Totti fu schierato centravanti e da lì iniziò tutto. Non ci sarebbero state Lione, Madrid, San Siro se non si fosse passati da quella partita contro la Sampdoria. Sulla panchina dell’Udinese – stagione 2004-2005 – portò i bianconeri in Champions League puntando sulla difesa a tre. A Empoli, alternava tre o quattro uomini dietro nel primo torneo in Serie A della sua carriera (1997-1998) confermando la categoria. Allo Zenit San Pietroburgo ha anche adottato il 4-3-3 oltre che a riproporre il 4-2-3-1.

FASE DIFENSIVA – Aggredire alta la formazione avversaria prima di ogni cosa. “Andare a mordere” per riconquistare il pallone. È una delle prime regole per non prenderle. Più si resta lontani dalla propria porta e meglio è. Restare corti e aggressivi in fase di “sottopalla”, cioè quando gli altri hanno il possesso. “Se non si fan contrasti si prende gol e non si vincan le partite”. Quattro uomini in linea o anche tre. Due centrali in mezzo, preferibilmente uno che sappia impostare l’azione da dietro. Il Chivu o il Juan della situazione. Per conoscere meglio il suo pensiero sulla fase difensiva, ecco uno stralcio di una conferenza stampa di Spalletti a Trigoria del primo periodo capitolino. Questo: “Il momento peggiore, il momento di massima attenzione per non prendere gol è quando si tiene palla noi. (…) Il numero dei gol è aumentato negli ultimi tempi quando gli attaccanti hanno capito di poter attaccare la profondità. E forse nell’evoluzione del calcio c’è un passettino a stare attenti a non concedere questo. Ad andare alla copertura di quello spazio lì. Più alzi e più un giocatore non tecnico la può mettere dietro la linea difensiva. Meno corridoio c’è tra la linea difensiva e il portiere e più ci vogliono i piedi di un calciatore di qualità per mandare il pallone con i giri contati oltre la linea difensiva. (…) Il momento più pericoloso è quando perdi palla, poi dipende dove la perdi. Ma il momento più pericoloso è quando la squadra è aperta, predisposta per andare a giocare, a fare possesso. Con la funzione di possesso si cerca di aumentare la distanza dei nostri calciatori con quella degli avversari. Al momento che perdi palla questa distanza rimane e di conseguenza loro hanno la possibilità di sviluppo di azione non avendo la nostra squadra riferimenti sulla fase difensiva”.

FASE OFFENSIVA – Attaccanti veloci e dinamici, esterni utilizzati sull’altra fascia rispetto al piede di competenza per sfruttare le doti balistiche verso la porta avversaria. Tagli repentini e attacco della profondità. Un centravanti di ruolo o un falso nove. Si può fare l’una e l’altra cosa con buon profitto. Sono questi i principi della fase offensiva dell’uomo di Certaldo. Un saggio di come una squadra di Spalletti sa arrivare in porta è il gol segnato dalla Roma 2007-2008 in Champions League alla Dinamo Kiev. Cassetti, terzino destro, prende palla all’altezza del centrocampo e inizia ad attaccare la fascia. Scambia con Totti, centravanti di movimento, uno-due. Il capitano, sfera al piede all’altezza della metà campo, suggerisce per Aquilani, uno dei due centrocampisti centrali in posizione. Aquilani a De Rossi, mediano davanti alla difesa al suo fianco. De Rossi verticalizza per Mancini, uno dei due esterni offensivi, che torna indietro per creare spazi e aprirli con la collaborazione di Totti ancora lontano dalla porta. Totti vede Aquilani in posizione più avanzata e lo serve con un tocco corto. Il regista, a sua volta, vede Tonetto salire sulla sinistra solo e indisturbato. L’esterno basso mancino ha tempo per ricevere, alzare la testa e mettere in mezzo di prima intenzione. Si inserisce Perrotta – mediano offensivo – che, di testa, mette in rete. Ventisei secondi di possesso palla, dodici tocchi belli per lo spettacolo e utili per disorientare la retroguardia avversaria. Questo è, Luciano Spalletti.

Fonte: AS Roma Match Program

daniele luciani

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