Alessandro Florenzi ha iniziato a tirare calci a un pallone a 18 mesi. A 10 anni cercava di emulare le magie di Totti e compagni nelle partite sotto casa o a scuola e a 11 ha iniziato a giocare negli Esordienti del club giallorosso. Come il calcio ha quindi sempre fatto parte della sua vita così la Roma è sempre stata la sua passione.
Parlaci della tua infanzia: quali sono i tuoi ricordi più belli?
“Ho avuto una infanzia felice con due genitori che mi vogliono bene e un fratello che mi ama. Sono cresciuto nella zona periferica di Roma, in un comune che si chiama Vitinia. I ricordi più vivi sono ovviamente quelli legati ai miei cari… e al pallone: bastava infatti avere una sfera tra i piedi ed io ero felice, semplice!”.
Quanti anni avevi quando hai scoperto dell’esistenza della Roma?
“Credo che avrò avuto quattro o cinque anni quando ho iniziato a vedere le prime partite alla tv con mio padre: lì ho iniziato a capire il calcio, le sue regole e cosa fosse quella squadra che giocava con i colori giallo e rossi”.
Quanto è appassionata di calcio la tua famiglia?
“Siamo una famiglia di ‘pallonari’, così mi piace sempre definire i Florenzi. Mio padre infatti giocava a calcio, non a livelli altissimi ma è arrivato a calcare i campi fino alla Promozione, categoria che ai suoi tempi era di buon livello e che si può quasi equiparare alla Lega Pro di adesso. E anche mio fratello ha calcato i campi di calcio giocando anche a Cassino, poi ha smesso”.
C’è mai stato qualcuno che ha cercato di farti tifare per la Lazio quando eri piccolo?
“A dire la verità, un mio amico ci ha provato: si chiamava Alessandro e veniva a scuola con me alle elementari. Io ero stato ‘instradato’ bene da mio padre, lui però stando a scuola insieme a me tutti i giorni ha tentato di convertirmi. È stato anche bravo nel suo pressing, ma alla fine ho resistito e sono rimasto della Roma”.
Quando eri piccolo, vedevi le partite dei giallorossi in tv o allo stadio?
“Come detto, ho iniziato a capire il calcio e la Roma giocando sotto casa e guardando le gare in tv, da piccolissimo. Poi quando avevo cinque-sei anni, non ricordo bene la data, mio padre ha iniziato a portarmi all’Olimpico a vedere la squadra. La prima gara in assoluto? Non mi ricordo bene la partita, ma di quel giorno mi sono rimaste impresse altre cose nella memoria, come la gente allo stadio, i giocatori, il campo verde…”.
Quanti anni avevi esattamente quando hai tirato per la prima volta un calcio al pallone?
“Un anno e mezzo. Mi sono innamorato del pallone presto, subito dopo aver imparato a camminare. Mi ricordo che, non avendo un giardino, giocavo dentro casa. L’unica persona meno contenta di questa mia passione all’inizio infatti era mia madre, dato che gli ho rotto un po’ di cose nell’appartamento!”.
Chi è stato il primo giocatore che hai cercato di emulare quando giocavi a scuola con i compagni di classe o con gli amici?
“Quando si giocava con sotto casa o a scuola i nomi dei giocatori famosi erano i soliti, ovviamente Francesco Totti era il più gettonato da tutti nella capitale: conta che quando la Roma vinse lo Scudetto nel 2001 avevo dieci anni… Poi però, a dire il vero, quando sono cresciuto e ho iniziato a giocare nelle squadre di calcio il mio idolo era Cesc Fabregas, un giocatore fantastico per me”.
Qual è stata la prima società con cui hai iniziato da bambino?
“Il primo club dove ho giocato è stato l’Axa, una società a cui è in qualche modo molto legata la mia famiglia. Mio padre infatti giocava lì, mentre mia madre lavorava nel bar del centro sportivo: io quindi, per forza di cose, ho iniziato lì a tirare i primi calci al pallone”.
In quale posizione giocavi all’inizio?
“In verità quando eravamo molto piccoli all’Axa giocavamo 5 contro 5 senza un ruolo preciso. In seguito le prime volte che abbiamo iniziato ad avere dei ruoli più definiti in campo ho giocato innanzitutto come attaccante: ero schierato o come seconda punta nel duo offensivo o, se davanti eravamo in tre, come esterno, sia a destra sia a sinistra”.
Già da quando eri molto piccolo eri tra i più forti in squadra?
“A dire la verità sì. Sin dai tempi dell’Axa. Me ne accorgevo nelle partitelle che facevamo tra noi e nei primi campionati. Sia atleticamente che tecnicamente ero uno dei migliori”.
Come sei finito nel settore giovanile della Roma? Raccontaci come è andata…
“Quando avevo nove anni sono andato a giocare nella Lodigiani, in quella che al tempo era considerata la terza squadra della capitale, visto che militava nell’allora serie C. Dopo due anni lì mi sono trovato nella situazione di dover scegliere tra Roma e Lazio, che mi volevano entrambe. Io mi sono convinto quando sono andato con mio padre a Trigoria e lì ho incontrato Bruno Conti, il responsabile del settore giovanile del club. Non mi ricordo bene cosa ci dicemmo, ma mi bastò la sua presenza e la sua accoglienza per farmi scegliere i colori giallorossi”.
Ti ricordi il provino o il primo allenamento dell’epoca? Eri nervoso?
“Non feci un provino vero e proprio. Mi ricordo di sicuro il primo allenamento. Eravamo all’Eucalipti, un campo vicino a Via Marconi, zona Sud di Roma. Era la stagione 2001/02 ed io iniziai con la categoria Esordienti. Ero sicuramente un po’ emozionato, dato che comunque indossavo per la prima volta la divisa della Roma e c’erano i tecnici del club. Poi, però, una volta iniziato a giocare, passò tutto: alla fine c’era sempre un pallone in campo e c’era da divertirsi…”.
Qual è stato il primo giocatore della Roma che hai visto di persona quando eri nel settore giovanile?
“Non tutte le giovanili si allenavano a Trigoria, quindi non era facile incontrare i calciatori della Prima Squadra. Io però ho avuto la fortuna di fare il raccattapalle allo stadio Olimpico: ho iniziato nella stagione 2002/03 e quindi allo stadio avevo la possibilità di vedere tutti. Uno dei primi che ho visto da vicino è stato proprio il Capitano, Totti. Mi ricordo che mi sembrava grande fisicamente, mi metteva in soggezione, anche se poi è bastata una sua battuta e un suo saluto per mettermi subito a mio agio”.
Nei tuoi primi anni alla Roma hai mai incontrato di persona anche De Rossi? Se sì, ci racconti come andò?
“La prima volta che ho incontrato Daniele e che ci ho parlato un po’ è stato paradossalmente non a Trigoria, ma al mare! Ero a Ostia, dove lui è nato e viveva: mi ricordo che lui era con il padre, Alberto, che già allenava la Primavera del club e che mi conosceva perché qualche volta, anche se militavo nelle categorie più giovani, mi aveva chiamato per partecipare a qualche seduta di lavoro con lui. Così andò il primo incontro con De Rossi: ci salutammo e parlammo un po’. Poi qualche anno dopo me lo sono ritrovato in Prima Squadra. Con lui e Francesco ho un ottimo rapporto”.
Avevi dieci anni quando la Roma vinse lo Scudetto del 2001. Quali sono i tuoi ricordi più vivi di quello storico momento?
“Mi ricordo benissimo Roma-Parma, l’ultima di campionato, che vidi da casa. E poi non posso scordare la festa, con la città che era impazzita di gioia. Io con mio padre andammo in giro per Roma il giorno della vittoria e anche la settimana dopo, quando ci fu la festa al Circo Massimo. Indimenticabile”.
Molti ragazzi del vivaio giallorosso spesso si perdono durante il passaggio nelle varie categorie. Hai mai pensato potesse capitare anche a te la stessa sorte?
“Lo pensi, a volte ti capita, anche perché senti e a volte vivi da vicino le storie meno fortunate di persone e ragazzi che hai conosciuto nel tuo percorso calcistico. Io penso che da questo punto di vista, ad aiutarti, ci vogliono due elementi imprescindibili: la famiglia e la testa. Devi essere forte psicologicamente e lo sei se hai dei cari alle spalle che ti seguono e ti insegnano i veri valori della vita. Io ho la fortuna di avere avuto con me mia madre e mio padre che mi hanno sempre tenuto con i piedi per terra, essendo venuti loro stessi dalla strada. Mi hanno cioè fatto capire dall’inizio cosa significa essere umile e cosa significa lavorare per arrivare a un obiettivo”.
Nei tuoi anni nel settore giovanile della Roma immagino tu abbia avuto alti e bassi: c’è mai stato un momento particolarmente difficile?
“Sì, quando ero nei Giovanissimi Nazionali. Nella regular season, quando c’era in panchina mister Scuderi, non scesi praticamente mai in campo. Poi nelle fasi finali cambiò il tecnico e arrivò ad allenarci Stramaccioni: con lui giocai sempre titolare, anche l’anno successivo quando passammo con lui negli Allievi Nazionali”.
Il momento più bello con le giovanili della Roma?
“Sicuramente la vittoria dello Scudetto con la Primavera nel 2011. Fu un successo incredibile, dato che in finale con il Varese perdevamo 2-1 fino al 91′. Poi quasi all’ultima azione Montini, il nostro attaccante dell’epoca, segnò e poi ci portò alla vittoria nei supplementari. Fu una gioia e una emozione speciale, anche perché io ero il capitano di quella squadra”.
Diventare un giocatore richiede sempre grandi sacrifici: quanto è stato difficile quando eri più giovane vedere i tuoi amici svagarsi in cose che tu non hai potuto fare?
“Sinceramente devo dire che non ho sofferto tanto il non potere uscire e fare tardi nei weekend, anche perché quando ho iniziato a considerare il calcio un lavoro che mi poteva garantire un futuro l’ho preso come una cosa seria con delle regole da rispettare. Paradossalmente l’aspetto per cui ho sofferto di più, nei tempi del settore giovanile, era che non potevo andare a giocare a calcetto quando mi chiamavano gli amici. È successo diverse volte che mio padre mi ha vietato categoricamente di andarci per paura che mi facessi male e io ne ho sofferto: col senno di poi devo dire che ha fatto bene… anche se anni fa qualche volta ci sono andato lo stesso!”.
Quando hai sinceramente pensato dentro di te di poter effettivamente diventare un professionista?
“Ho detto ‘ce la posso fare’ durante l’ultimo anno di Primavera, quando abbiamo vinto lo Scudetto, e poi la stagione successivo sono andato in prestito al Crotone. Mi è scattato qualcosa dentro: coscientemente nemmeno te ne accorgi, ma ti cambia qualcosa nella testa per cui capisci che la strada è quella giusta. Arriva il momento in cui ti dici ‘in campo ci posso stare’ e poi da lì vai avanti per la tua strada, lavorando”.
Cosa ricordi del giorno che hai firmato il tuo primo contratto da professionista? Quanto sono stati orgogliosi i tuoi genitori?
“Il primo contratto professionistico l’ho firmato a Trigoria quando ero in Primavera. La cosa bella è che presenti con me in quell’altro punto fondamentale della mia carriera da calciatore c’erano le stesse due persone presenti nel primo momento importante, quello del primo giorno alla Roma: infatti, praticamente a distanza di dieci anni dall’arrivo alla Roma, io varcai con mio padre il cancello di Trigoria e incontrammo sempre Bruno Conti. Sempre noi tre. Che dire di quel giorno: i miei erano davvero orgogliosi e contenti perché capirono che potevo davvero fare qualcosa di importante con la cosa più bella del mondo per me, il gioco del calcio”.
Parlaci del momento e delle sensazioni del tuo debutto in Prima Squadra: non tutti i giocatori posso dire di aver esordito in giallorosso sostituendo Totti…
“Era maggio del 2011, era un Roma-Sampdoria allo stadio Olimpico. E’ stato molto bravo proprio Francesco che ha reso la cosa subito molto simpatica e semplice per me, perché è bastato un suo sorriso per farmi stare più tranquillo. La mia presenza sul campo è durata poco, dato che erano gli ultimi tre minuti di gara, ma devo dire che è stata una grande emozione. E’ uno di quei momenti clou che rimangono impressi a vita e sono contento che i miei erano in tribuna a vedermi”.
Quanto ha influito nella tua crescita professionale l’avere avuto al tuo fianco due esempi come Totti e De Rossi?
“La loro presenza non è stata importante. È stata fondamentale. Perché sia Francesco che Daniele mi hanno aiutato in tutto e per tutto: senza paragoni loro due sono state le persone che mi hanno aiutato di più dentro la Roma. Mi hanno supportato e consigliato dalla A alla Z. Partendo dagli atteggiamenti da tenere in squadra e in un ambiente come quello della nostra città. A volte mi hanno preso in disparte ma spesso è bastata una parola messa in una frase e un’occhiata a farmi capire se stavo facendo una cosa buona o no”.
Qual è la cosa più importante che ti hanno insegnato?
“Francesco non ti insegna le cose, ma ti ispira: vedi le magie che fa in campo e provi a rifarle, anche se non è facile emularlo. È sempre una fonte di stimolo. Daniele è poi per chiunque un esempio sia per l’atteggiamento in campo con la sua voglia e cattiveria calcistica sia per l’intelligenza tattica”.
Raccontaci l’emozione del primo gol segnato in Serie A…
“Eravamo a Milano, stagione 2012-13, la mia prima in giallorosso dopo il ritorno dall’anno al Crotone. Era Inter-Roma, la seconda di campionato, la numero uno da titolare per me. Realizzai un gol di testa con assist proprio di Totti: fu una bellissima emozione anche perché alla fine vincemmo. Quando realizzai nella mia mente l’importanza di cosa avevo fatto? Solo a fine gara, durante il match si pensa solo a dare il massimo: negli spogliatoi invece a mente fredda capii in effetti che il gol di quella sera era stato un momento speciale e che me lo sarei ricordato per sempre”.
Giochi per la squadra della tua città: pensi che questo sia più un aiuto essendo tifoso della Roma o un piccolo ostacolo in quanto sei sottoposto a una maggiore pressione della piazza?
“Come dico io sempre, è un grande orgoglio ma anche una grande responsabilità. Devi cercare un tuo equilibrio e vedere le cose sotto questa prospettiva”.
È cambiata la tua vita dopo il tuo debutto con la Roma in Prima Squadra e come vivi il fatto di essere ora una persona famosa?
“Innanzitutto cerco sempre di essere umile come mi ha insegnato la mia famiglia, anche se sarei sciocco a dire che non è cambiata la mia vita. Il fatto che la gente ti riconosce, anche fuori di Roma e dall’Italia, è comunque una cosa bella e non deve essere visto come un deficit: secondo me è da interpretare come un segnale che stai facendo delle cose positive e che sei sulla buona strada. Ripeto, basta vivere questo aspetto con tranquillità, soprattutto tenendo conto del fatto che si può essere un esempio per i bambini più piccoli”.
Quando sei stato mandato in prestito al Crotone, hai mai temuto di non poter fare la tua carriera con la Roma?
“Sinceramente non ci pensavo: in quei mesi mi sono concentrato solo sul fatto di dover lavorare bene e di dare il massimo per quella squadra, anche nell’ottica poi di mostrare al club giallorosso quanto effettivamente ero in grado di fare. Ci sono riuscito fortunatamente alla grande e sono quindi stato richiamato dalla Roma”.
Che sensazione hai poi provato nel tornare alla Roma, sapendo che il club ti voleva in Prima Squadra?
“E’ stata una grande soddisfazione e, tra virgolette, anche una piccola rivincita personale se vogliamo: l’anno prima infatti non avevano puntato su di me ma dopo la bella stagione a Crotone sono riuscito a farli ricredere… una bella sensazione meritare sul campo la chiamata della Roma. Devo dire che dal punto di vista personale l’anno a Crotone è stato importantissimo: mi sono allontanato da casa e in quei mesi sono cresciuto insieme come calciatore e come uomo”.
Sono passati tre anni e mezzo dal tuo ritorno alla Roma: quali cose sono cambiate nella tua vita e quali sono rimaste le stesse?
“Nonostante la notorietà io sono rimasto lo stesso, con gli stessi valori di quando ero più piccolo: è rimasta uguale la mia umiltà, il mio rapporto con la famiglia, con la mia ragazza… anzi, qui il cambio c’è stato, lei a luglio è diventata mia moglie!”
L’ultima cosa: se dovessi dare un consiglio a un ragazzo che ti prende come esempio, cosa gli diresti?
“Prima di tutto che deve essere umile, cosa fondamentale è rimanere sempre con i piedi per terra, anche se si inizia a giocare qualche gara più importante. Seconda cosa fondamentale è il lavoro: solo con il sacrificio si riesce infatti davvero a raggiungere i propri sogni, nessuno ce li regala. Terza cosa, importantissima, si deve cercare di pensare sempre che il calcio è comunque un divertimento: è il gioco più bello del mondo!”.
Fonte: asroma.it
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