(E. Sisti) Appeso a un filo invisibile, Garcia rimarrebbe per mancanza di sostituti (martedì Spalletti potrebbe sbarcare a Roma a certe condizioni, si presume che lo stesso Pallotta abbia scartato Bielsa, di Lippi non si parla più, di Conte e Emery solo coniugando i verbi al futuro, è circolata persino la suggestione Mourinho). Panchina affittasi, ma nessuno si fida, la Roma è una struttura malriscaldata, la sua panchina traballante simboleggia una società sempre più “a house not a home”, si vedono le mura, non si vede il cuore, gli affari si allontanano, il presidente è stranito dall’ambiente e ha le valigie in mano, il resto della ciurma è sempre più scollegato dalla realtà, quella grande della stagione, quella piccola di una singola partita. Genoa spartiacque? Vedremo. Genoa cruciale per Garcia? Vedremo. «Non sono uno stupido, è necessario cambiare». In un trambusto di parole Garcia ammette che «il vero fallimento è stato perdere contro lo Spezia, altrove siamo in corsa». Ma come? Non vincendo per 40 giorni, ecco come. E di cosa parliamo quando parliamo di cambiare? Tutto, lui stesso, i sistemi che regolano lo scorrimento della linfa giallorossa, molti dei calciatori e dei rappresentanti del club che di questa linfa dovrebbero in teoria nutrirsi alimentando, sempre in teoria, un circolo virtuoso che non s’è mai visto? E poi cambiare in blocco non si può, quindi si presume che qualcuno pagherà per tutti.
Garcia non si sente un peso ma lo sguardo tradisce stanchezza: «Quando mi accorgerò di non essere più utile mi farò da parte». Lui può dirlo, i giocatori no, al massimo possono fare del loro meglio per finire a piangere in un cantuccio come Iturbe, ora al Watford. Però sono responsabili quanto lui se la Roma è diventata un gruppo pirandelliano, la prova calcistica e aziendale dell’esistenza del sentimento del contrario: si esalta l’attacco e di colpo smette di segnare, si condanna la difesa e come d’incanto quelli cominciano a difendere meglio, gioca in casa ma è come se giocasse fuori (i 3000 spezzini) o a porte chiuse, sogna uno stadio tutto suo e non riesce neppure a conservare il ricordo dell’Olimpico pieno, si qualifica per gli ottavi di Champions ma con metodi così poco urbani da provocare contestazioni anziché caroselli, esce con lo Spezia e dovrebbe sfidare il Real Madrid, fa mercato ma poi non ci crede («la difesa è ancora giovane»), compra un centravanti, ha i piedi dorati ma fatica a segnare, pullula di senatori, di potenziali capitani, ma è carente di leadership, esibisce due contropiedisti e non trova il tempo di studiare uno o due schemi per sfruttarli, vorrebbe cambiare tecnico e ancora non trova un sì che abbia il crisma dell’attendibilità, il suo pubblico vive di sola passione ma adesso sembra un gigantesco pezzo di ghiaccio: «Non mi preoccupa l’esonero, conosco le regole del gioco», aggiunge il triste Garcia, che vede il capolinea e volta la testa. Sognava lo scudetto, ora punta al panettone. Ma come si è arrivati a rincorrere Migliore, Situm, Catellani e Nené, come si è arrivati in due anni e mezzo a rovesciare l’imperatore, a perdere l’anima, a chiudersi in se stessi spacciando la malattia per il rimedio, a muoversi in campo senza vita e per Natale a vedere i fantasmi di passato presente e futuro di Dickens e Scrooge? Forse prima di cercare il bandolo bisognava appurare l’esistenza di una matassa. Garcia sì, Garcia no, Garcia chissà chi lo sa. Intanto il Genoa. Vai a sapere…
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