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IL MESSAGGERO Esame di maturità per il nuovo Pjanic

gol Pjanic

(S. Carina) In silenzio, si è preso la Roma. Mai come in questo avvio di stagione, Pjanic è diventato il faro della squadra. Che sia interno di centrocampo in una mediana a tre, in versione playmaker o trequartista nel 4-2-3-1 fa poca differenza: tutti i palloni passano per il bosniaco. È un calciatore nuovo rispetto a quello della seconda metà dello scorso anno. Ora dà l’idea di sentirsi bene in tutto quello che fa: dagli assist (già due in 5 gare: a Totti col Sassuolo e a Salah l’altra sera con la Sampdoria) ai gol (contro la Juventus), qualsiasi cosa gli riesce semplice. Assistito (nonostante l’infortunio al polpaccio rimediato in nazionale) da una condizione fisica più che convincente, è sempre pronto a correre in soccorso del compagno di squadra in difficoltà. Per intenderci, quello che faceva Keita lo scorso anno. Pjanic lo vedi ovunque: davanti alla difesa a far partire l’azione, vicino l’area avversaria a cercare l’imbucata giusta o il tiro a rete. Ecco, se proprio si vuole cercare il pelo nell’uovo, dovrebbe cercare maggiormente la conclusione. Negli occhi della tifoseria c’è ancora l’istantanea dell’altra sera quando nel secondo tempo anziché tirare in porta in diagonale ha scaricato indietro per Salah e per poco non è ripartito il contropiede doriano. Più cattivo, quindi. Se vogliamo, più egoista. Un calciatore della sua qualità non si può limitare infatti a segnare il 42% dei gol su punizione (8 su 19). È quanto sta accadendo da quando veste la maglia della Roma. Il calcio da fermo deve (e in parte lo è già diventato) essere il quid in più. Miralem è già arrivato a quota 8 con una percentuale tra tiri tentati e realizzati che supera il 12%: la migliore in Italia. Ma segnare poi 11 reti su azione è troppo poco.

CAPO TECNICO Garcia promise di incatenarsi a Trigoria qualora fosse stato ceduto ed è grazie al francese se il bosniaco è rimasto. Magari qualcuno lo ha dimenticato, ma fu proprio Rudi a pretenderne a tutti i costi la conferma durante la sua prima estate in giallorosso. All’epoca, nel gioco della torre, venne sacrificato Lamela, il pupillo di Sabatini. Miralem certe cose non le dimentica. E così da ‘Pianista‘ (uno dei soprannomi che gli sono stati dati) a direttore d’orchestra, il passo è stato breve. Inutile girarci intorno: quest’anno tocca a lui guidare la Roma. Un po’ perché Totti non è più la stella polare della squadra (anche se oggi potrebbe giocare dall’inizio), un po’ perché Miralem si è definitivamente trasformato in un leader tecnico. I compagni lo cercano sempre: difensori, centrocampisti o attaccanti non fa differenza. Tutti i palloni, le idee e la costruzione del gioco passano per Mire. E probabilmente, al netto degli schemi offensivi che sinora latitano, toccherà a lui azionare con più frequenza Dzeko. Sinora Edin sembra un pesce fuor d’acqua. Molto dipende dalla manovra giallorossa che lo costringe a giocare spalle alla porta, andandosi a cercare palloni giocabili indietreggiando di una trentina di metri. Un paradosso per un centravanti della sua qualità, abile come pochi altri a colpire di prima intenzione in area di rigore. Toccherà al globe trotter di Trigoria – che gira in tasca con tre passaporti, lussemburghese, francese e bosniaco, e parla sei lingue in modo fluente – trovare la chiave giusta per mettere in moto il connazionale. La sensazione è che per uno che a 19 anni sbriciolò al Bernabeu le convinzioni del Real Madrid dei Galacticos, non sarà un problema.

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