(F.Paglialunga) – Undici è stato di recente ospite di Trigoria, e lì ha incontrato e intervistato tre giocatori della Roma. Cominciamo da Radja Nainggolan, che domenica ha fatto un gol fondamentale e bellissimo. Un giocatore paziente, eclettico, addirittura saggio: forse il contrario della superficiale opinione che suggerirebbe la sua estetica.
È il giocatore che chi è a corto di argomenti calcistici criticherebbe facile: ha la cresta gialla, appena finisce l’ultimo tatuaggio avrà quasi tutto il corpo dipinto. Funziona così: la cresta è un vezzo da viziati, i tatuaggi sono ancora il segno di un modo gretto di esprimersi e quindi quando arriva l’ora del “dagli al calciatore” ecco l’argomento più semplice. «Pensano ad avere la cresta e i tatuaggi. Sono solo buoni a quello».
Poi il pallone è fatto per essere in campo e allora tutto diventa misurabile da prestazioni, gesti atletici, sacrificio, carisma, chilometri corsi, contrasti. E allora chi ha argomenti calcistici con cui discutere della cresta gialla e del corpo tutto tatuato di Radja Nainggolan se ne frega. Di più: esalta quel suo essere bizzarro senza esserlo realmente, quel suo modo spesso scanzonato di stare nello spogliatoio e ridere oppure essere serio ma sempre con giudizio. Si può essere giudiziosi anche con la cresta gialla e i tatuaggi, evidentemente. Intanto, mentre passa il tempo a far saltare stereotipi, Nainggolan ha anche il tempo di piegarsi reggendosi sul piede sinistro, fino a essere quasi perpendicolare al terreno e ancora in equilibrio, attendere il pallone, concedersi l’ultimo breve momento di volo per calciare con il destro, dal limite, come calciano gli incoscienti o quelli che sono tanto sicuri della propria forza che no, non sarà una figuraccia, un tiro alle stelle.
Infatti il movimento di Radja diventa gol, l’unico della Roma con il Genoa, dunque quello decisivo. Dunque quello bello, così bello anche se ha cresta e tatuaggi. Significativo, perché chi realizza un capolavoro va celebrato e infatti a Roma Nainggolan è celebrato ogni giorno, come uno dei migliori, come uno di quelli che, nelle forme d’amore previste per i calciatori che non garantiscono venti gol e colpi continui di estremo genio, ti assicura, una volta entrato in campo, di uscire stremato. Ed essere già di nuovo pronto per giocare ancora, e stremarsi un’altra volta. Ecco perché dici Radja e già senti applausi in sottofondo, sulla fiducia: «A me non ha regalato niente nessuno. Sono arrivato in ogni squadra spremendomi, dando me stesso. Ho fatto sempre tanto lavoro oscuro. Poi, se questo lavoro oscuro è apprezzato vuol dire che è un buon lavoro e dunque, la gente è contenta e io pure».
Nainggolan è uomo ovunque. Sembra sia di stanza a Roma e di corsa chissà dove, quando va di fretta per estirpare un pallone dai piedi dell’avversario e guadagnarsi l’ovazione della folla. La Roma è la sua opportunità migliore: ci è arrivato nemmeno un anno fa, era gennaio, a ventisei anni che non sono nemmeno pochi per uno che ha talento, voglia e coraggio. La strada per una grande è stata lunga da percorrere: prima, in Italia, è passato da cinque anni a Piacenza e quattro a Cagliari. Nove, attendendo una chiamata o forse no. Anzi, no: «Potevo andare prima in una squadra di vertice, ne ho avuto l’opportunità. Ma ho pensato che non fosse quello il percorso, che ci fosse bisogno di aspettare. Volevo maturare a Cagliari, dove stavo benissimo, e ora posso dire di aver atteso il tempo giusto». Quando parla è esattamente quello che trasmette: ha aspettato il tempo giusto e ora è lì, seduto e sicuro. Meno spericolato di come appaia in campo, più posato di quando ha in mano un telefono e usa i social network. Ma pure delle risposte azzardate a follower passati di lì per caso (oppure a Peluso del Sassuolo) ha cognizione: le ritiene parte del carattere, un po’ ci scherza su quando Destro passa dalle sue parti e dice che «è meglio se non ti insegno io, come si usa Twitter». Radja ha l’esuberanza come cifra stilistica: è “troppo” quasi di ogni cosa. Anche nelle lingue che conosce e parla correttamente: inglese, francese, fiammingo, olandese e italiano: «In una squadra con giocatori di tante nazionalità diventa molto utile: parlo con Strootman in olandese, con Gervinho, Pjanic e Keita in francese, con Cole e Holebas in inglese, con gli altri in italiano – spiega mentre passa Strootman e, ovviamente, gli dice due parole in olandese. Avere questa possibilità mi ha facilitato la vita, perché quando cambi squadra non è mai semplice e invece così ti ambienti prima».
Uno che può parlare con tutti, indipendentemente dalla nazionalità, è un uomo che nello spogliatoio sta bene. Che “fa” spogliatoio, se si vuole attingere al prontuario delle frasi fatte. Costi quel che costi, se il racconto che segue corrisponde al vero: dicono che a Cagliari, in una squadra divisa per piccoli clan quasi tutti in base alla nazionalità, lui portò a ognuno il messaggio sbagliato da parte degli altri, giocando sulla conoscenza della lingua. Diceva che gli uni sparlassero degli altri. Provocò una lite interna che finì per far venire fuori tutto, chiarire ogni malinteso e rendere quell’insieme di clan una squadra vera.
La raccontano come una favoletta e, in quanto tale, sarebbe bella anche non dovesse essere vera. Ma Nainggolan sarebbe in grado, in fondo. Lo fa perché per lui l’unione è molto, pure nella vita. Lo pensa perché è passato da un abbandono e quindi conosce il senso di vuoto di quando si resta senza qualcuno: il padre, indonesiano di etnia Batak, lasciò lui, la mamma (belga, di etnia fiamminga) e i fratelli in condizioni precarie. Radja dovette crescere in fretta e affidarsi al calcio, che ora è anche la professione di sua sorella gemella Riana, pure lei a Roma (gioca nella Res, in Serie A). Ha dovuto fare in fretta, da uomo. Si è preso il tempo, da calciatore. Ha cercato risposte a tutte le domande, in tutte le lingue. Solo a un perché non riesce a rispondere. La domanda è: perché Wilmots non lo ha convocato al Mondiale? «Non lo so: è stata una delusione enorme. Lo è ancora di più se penso che alla mia età hai al massimo un altro Mondiale davanti, è facile capire quanto ci tenessi. Eppure in Nazionale ero partito bene, e invece sono rimasto a casa. Sì, ho detto che forse il ct non guarda il calcio italiano, ma la verità è che continuo a farmi la domanda e continuo a non sapermi dare la risposta».
Invece il calcio italiano ci vede bene. Tardi, ma ci vede. Nainggolan è stato per anni con il cartello vendesi e poi ha scelto di disfarsene, tranne nell’ultimo gennaio quando le squadre erano tante e di valore e la Roma ha fatto prima e meglio. Abituato com’è, in fondo, a stare a lungo nelle piazze in cui va, questa potrebbe essere la sua destinazione definitiva. Per quello che Roma dà al suo Ninja, per quello che il Ninja dà a Roma, ogni volta che insegue l’uomo di fronte con il pallone tra i piedi, ogni volta che si piega per una sforbiciata che non ti aspetti e che può essere esposta nella galleria dei suoi capolavori: «Ci ho messo molto per arrivare in una grande e ora dico che non mi dispiacerebbe chiudere qui la mia carriera. Andare in una rivale sarebbe impossibile, all’estero difficile. Ma soprattutto non vedo, nei prossimi anni, una squadra migliore della Roma. Sono felice di esserci, anzi». Infatti sorride. Succede anche a quelli con la cresta gialla e il corpo completamente tatuato.
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