(L. Pisapia) – Un vecchio simbolo del calcio inglese Ashley Cole, sembra aver fallito in Serie A. Molte le partite in ombra in questo inizio di campionato, su tutte la partita contro il Bayern, quando Robben lo ha costantemente umiliato fino a costringere l’allenatore Rudi Garcia a sostituirlo a fine primo tempo.
Ma non solo lui ha fatto il salto della Manica. Oltre all’ex terzino di Arsenal e Chelsea ora alla Roma, infatti, sono sbarcati in Italia anche altri illustri colleghi: Evra e Vidic dal Manchester United e Fernando Torres dal Chelsea. Tutti giocatori non britannici ma provenienti dalla Premier League. Tutti casi a loro modo diversi. Torres è una scommessa mancata, dopo un grave infortunio da quattro anni non è ancora tornato ai suoi livelli. Evra e Vidic (33 anni) sono giocatori sul viale del tramonto che come Cole (34) hanno scelto una dorata pensione ai tropici italiani, ma a differenza del romanista hanno anche dovuto adattarsi alla difesa a tre, con cui mai hanno giocato prima.
E come ricordava Mourinho proprio l’aspetto tattico è la principale differenza tra i due campionati. In Gran Bretagna c’è meno pressione, ci si allena meglio, il giorno della partita ci si ritrova allo stadio senza dover andare in ritiro la sera prima: e questo è il primo blocco psicologico che impedisce ai calciatori provenienti da oltremanica di liberare la loro potenza.
E il costante fallimento dei giocatori provenienti dal campionato inglese è ciclico nella storia. Lo scozzese Denis Law nei primi anni Sessanta al Torino è ricordato più che altro per la bella vita, diventerà un fuoriclasse da Pallone d’Oro a Manchester. E per un gallese come John Charles che negli stessi anni ha fatto grande la Juventus (capocannoniere e tre scudetti) ce n’è un altro come Ian Rush che della Serie A degli Anni Ottanta è uno dei flop più clamorosi: fenomeno a Liverpool prima e dopo la parentesi bianconera, a Torino non ingranò mai. Il principe del fallimento resta comunque Luther Blissett, centravanti inglese arrivato dal Watford al Milan nella stagione 1983-84, entrato nell’immaginario collettivo grazie ai suoi incredibili errori sotto porta e a un gruppo di scrittori che ne ha assunto il nome.
Il maggior numero di giocatori britannici arriva in Serie A tra gli anni Ottanta e Novanta, quando da noi si aprono le frontiere e da loro non è possibile giocare le Coppe per la tragedia dell’Heysel. Se ne salvano pochi, pochissimi: il nordirlandese Liam Brady (due scudetti con la Juve e poi Samp, Inter e Ascoli), l’inglese Trevor Francis e lo scozzese Graeme Souness (dalle Coppe dei Campioni con Nottingham e Liverpool alla Coppa Italia con la Sampdoria) e l’inglese David Platt (benissimo a Bari, male alla Juve e di nuovo bene alla Samp). Poi ci sono i dimenticabili arrivi di Paul Eliott (Pisa), Gordon Cowans e Paul Rideout (Bari), Des Walker (Sampdoria) e di giocatori sul viale del tramonto come Tony Dorigo (Torino) e Lee Sharpe (Sampdoria).
MENTRE grandissimi giocatori come Paul Gascoigne (un brutto infortunio alla Lazio), Paul Ince (male la prima stagione all’Inter, meglio la seconda), Mark Hateley (un gol indimenticabile nel derby e poco altro) e Ray Wilkins (anche lui al Milan) sono stati beniamini dei tifosi per l’impegno, lo stile e la personalità. Ma in campo non hanno mai girato, salvo poi farlo di nuovo una volta tornati in patria.
È qui che subentra quella che è probabilmente la ragione principale. Negli anni Ottanta e Novanta la Serie A è il campionato più ricco e all’avanguardia del continente, e i britannici qui faticano. La controprova è che italiani considerati a fine carriera come Zola, Di Matteo, Vialli, Lombardo e Carbone una volta sbarcati in Premier fanno faville. Da una decina di anni però la situazione si è ribaltata: la Premier League è il meglio e alla povera Serie A oggi è permesso solo di importare gli scarti o i pensionati. Con le eccezioni di Tevez e Gervinho, che abituati ai ritmi forsennati della Premier qui diventano imprendibili, gli altri – da Beckham a Cole, Vidic, Evra e Torres – sono parametri zero o saldi estivi che dopo aver dato il meglio in un torneo più difficile, di cui evidentemente non reggevano i ritmi, hanno scelto una dorata pensione in Serie A. Se a fine secolo il fallimento dei giocatori britannici in Italia poteva essere un vanto, oggi è lo specchio del tracollo dei club italiani: tristi tropici del pallone continentale.
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