Fuori da un campo da calcio, vestito non da calciatore, Miralem Pjanic non sembra un calciatore. In vita mia sono stato veramente vicino a un calciatore in pochissime occasioni e ogni volta è stata un’esperienza impressionante. La differenza tra vedere un calciatore in tv o allo stadio e averlo a pochi passi in abiti civili è pressapoco quella che c’è tra sfogliare una rivista di moda e trovarsi con una modella in ascensore per cinque piani. Ai tempi del liceo, una mattina che non sono entrato in classe, ho incontrato Vieri in una sala giochi di Roma Nord. Con la tuta della Lazio faceva lo stesso effetto che avrebbe fatto il T-Rex di Jurassic Park in una sala giochi piena di adolescenti.
Di recente sono stato spalla contro spalla con De Rossi per una foto e la sensazione che ho avuto è stata che De Rossi non fosse fatto della stessa materia di cui sono fatto io. Che sotto il cardigan lungo che indossava (con una fantasia verde e rossa forse di Missoni) fosse rivestito di uno strato protettivo supplementare. Ho provato la stessa sensazione quando ho stretto la mano a Emerson e le mie ossa si sono sovrapposte con uno scatto; o quando ho visto Zebina in un aeroporto con una camicia bianca che addosso a lui aveva gli spigoli. Certo, ho incontrato quasi solo giocatori grossi, ma Pjanic può essere considerato “piccolo” solo in confronto a calciatori di questo tipo, è comunque un atleta ventenne di un metro e ottanta.
Giocare con lo sguardo.
Il punto è che a trovarselo davanti, con una maglietta nera di un tessuto lucido e morbido sulle sue braccia magre e dei pantaloni di cotone, Pjanic non sembra una persona che si guadagna da vivere con il proprio corpo. Non sembra, cioè, che per giocare a calcio (persino in questo calcio) il corpo sia la cosa più importante, almeno per lui. A pensarci bene è così anche quando è in campo: la testa di Pjanic si muove separatamente dal corpo, come il periscopio di un sottomarino, lo sguardo viene prima dei movimenti delle sue gambe, che lo seguono in ritardo.
Una parziale conferma mi arriva quando, verso la fine dell’intervista, gli chiedo a quali giocatori si ispira: «Da bambino Zizou, Zidane. Da avversario mi piace molto Pirlo, è sempre difficile giocare contro di lui, fa la differenza, è elegante. Forse in generale nel calcio di oggi quello che mi piace di più è Xavi, per lo stile». Gli faccio notare che ha nominato giocatori che giocano in posizioni diverse in campo: un play, una mezzala e un trequartista. «Perché sono intelligenti. Mi piacciono i calciatori che riflettono quando giocano. Si capisce se un giocatore sa riflettere o no. E questi tre vedono cose che gli altri non vedono.»
Avrebbe potuto giocare con la Francia, o il Lussemburgo con cui ha fatto le giovanili (ai tempi in cui somigliava a Michael Owen), ma ha scelto a diciotto anni, appena ha potuto cioè, il paese da cui il padre lo ha portato via quando aveva un anno. Ha sofferto per le esclusioni dal Mondiale del 2010 e quella dall’Europeo del 2012 (in entrambi i casi perdendo lo spareggio contro il Portogallo) e ha pianto di gioia quando finalmente sono riusciti a qualificarsi per il Mondiale brasiliano (qui se volete c’è anche Dzeko con un sombrero). Oggi Miralem Pjanic è il quinto giocatore con più presenze nella Nazionale bosniaca e l’autore di uno dei quattro gol che per il momento sono gli unici gol che la Bosnia abbia segnato nella storia dei Mondiali di calcio.
Guerra.
La sua storia comincia con un aneddoto così da romanzo che gli devo chiedere se è vero: «Sì, sì. È vero. È andata così: mio padre aveva chiesto due volte i documenti per andare a giocare in Lussemburgo e avevano rifiutato di darglieli. Era un calciatore, giocava nel Drina Zvornik. Così la terza volta siamo andati con mia madre. Io ero in braccio a lei e quando mia madre ha iniziato a piangere, perché continuavano a rifiutarsi di darci i documenti, mi sono messo a piangere anche io. Abbiamo impietosito l’uomo davanti a noi che ci ha detto: Va bene, lo faccio per il bimbo». (Pjanic parla cinque lingue e ogni tanto le mischia, in questo caso ha detto che il tipo che non gli dava i documenti “ha avuto male al cuore”, che è una traduzione letterale dal francese tanto sbagliata quanto poetica.)
Il padre giocava in terza divisione e girando per i campi dell’Ex-Jugoslavia aveva capito che la situazione stava per peggiorare e ha portato la famiglia in Lussemburgo: «Aveva degli amici lì. È stata la prima occasione per andarsene e l’ha colta. In Lussemburgo faceva l’operaio, e anche mia madre doveva lavorare. Grazie al calcio però ha avuto i documenti per restare, all’inizio. Ma lì non si vive con il calcio, è amatoriale».
Zvornik è stata la seconda città invasa dalle forze armate e paramilitari serbe, le moschee sono state distrutte e la popolazione bosniaca è stata espulsa, deportata in campi di concentramento o uccisa; in quella zona è stata trovata una delle più grandi fosse comuni del conflitto. La famiglia di Pjanic ci è tornata subito dopo: «Nel 1996. La prima volta c’erano ancora i carrarmati degli americani per strada». Alcuni suoi compagni di Nazionale, invece, hanno vissuto il conflitto: «Sì, ma non ne parliamo molto. Io ho visto le immagini, ho guardato i documentari, i film».
(…)
Continuare a crescere. Roma (2011- )
Il dualismo con Gourcuff si è riproposto a Roma, secondo alcuni commentatori con Totti. Come se due giocatori con così grande qualità fossero troppi, come se ogni pallone toccato da Totti (a cui Pjanic si riferisce con il diminuitivo “Checco” che, mi pare, a Roma ormai non usi quasi più nessuno) fosse un pallone in meno per Pjanic. «Sì e no. Checco gioca in un ruolo diverso, Gourcuff è più il mio ruolo. Non è stato un anno molto felice, positivo, e quando dovevo scegliere di venire Roma ho tenuto conto anche di questo. Ma qui è diverso. Con Checco ci troviamo bene in campo, capiamo i movimenti l’uno dell’altro». Forse è anche merito dell’abitudine: «È la quarta stagione che giochiamo insieme. Io so molto bene come gioca lui, lui sa molto bene come gioco io. Quando vedo che lui viene un po’ più basso, vado io più alto. So come lui vuole la palla… ci capiamo, è diverso e mi sento molto bene come gioco adesso».
Nel 4-2-3-1 della Bosnia Pjanic ha giocato sia nella coppia di centrali che come trequartista, ma non esita neanche un secondo a dirmi qual è secondo lui il suo ruolo: «Il mio posto è dove gioco adesso. La mezzala in un 4-3-3. In un centrocampo dove gestiamo la partita, dove abbiamo sempre il possesso, senza paura di tenere la palla. Questo è il mio gioco. E gioco con calciatori straordinari che capiscono davvero molto di calcio. È facile giocare in questo modo, quando il Mister ti chiede di giocare in questo modo».
Zeman.
E il discorso tattico ci porta a parlare dei problemi che ha avuto durante il suo secondo anno a Roma, con Zeman: «Secondo me Zeman è un bravo allenatore. Forse però voleva un certo tipo di giocatori che non aveva qui. Forse dovevamo giocare in un’altra maniera, perché i giocatori a disposizione facevano un altro tipo di gioco. Lui chiede spesso ai centrocampisti di buttare la palla in avanti, di verticalizzare, sempre. A me piace giocarla come la sento io. Come mi chiede il Mister adesso: Fai quello che senti perché tu sei quello che decide, tu devi fare il tuo gioco. Questo mi dice Garcia oggi. È completamente diverso. Non è che non me la sentivo di buttarla dentro, a volte però pensavo che la soluzione migliore era un altra. La differenza oggi è che mi sento molto più libero»
Il sistema di Rudi Garcia.
Pjanic non si sentiva libero nel gioco di Zeman ma questo non fa di lui un giocatore anarchico. Di solito associamo la libertà in un campo da calcio all’individualismo, e alla quantità di talento. I giocatori migliori possono fare quello che vogliono, sono liberi di esprimersi (o, per dirla con le parole di Mazzone: «La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è il pane dei poveri»). Pjanic, invece, sembra aver trovato la propria libertà nell’organizzazione di gioco di Rudi Garcia: «Abbiamo le idee molto più chiare. Sappiamo come vuole che giochiamo. Siamo molto più forti tatticamente, equilibrati. Sappiamo i compiti di tutti, e se uno non è al suo posto c’è qualcun altro che lo copre, ci battiamo l’uno per l’altro, corriamo, diamo una mano a quello che magari è meno in forma. È tutta la squadra che fa la differenza, e questo è lo spirito che il Mister ha portato con sé».
Con Garcia, Pjanic è migliorato sotto tutti i punti di vista, anche quello difensivo. «Noi facciamo quello che chiede il Mister e se il Mister vuole che recuperiamo la palla subito, velocemente, subito dopo la linea degli attaccanti ci siamo noi centrocampisti». Certo, non sa scivolare come Nainggolan (che però sembra uscito da un video-gioco, e non di calcio, più Mortal Kombat che Fifa) e non ha le spalle di Strootman per sostenere il peso del mondo, ma Pjanic è spesso il primo giocatore della Roma a portare pressione e la sua capacità di leggere le giocate avversarie gli permette di tagliare le linee di passaggio.
I pericoli di Roma.
A questo punto gli confesso la mia paura peggiore da tifoso: che Rudi Garcia possa crollare nei momenti difficili, non avendone ancora vissuti a Roma. Pjanic forse pensa che stia ancora parlando di lui e chiede: «Chi non ha vissuto momenti difficili?».
Ma è passato troppo poco tempo per aver già dimenticato il trattamento subìto da Pjanic nell’estate del 2013, il lato oscuro della passione sportiva a Roma: «Lo conosco, ma anche il Mister l’ha visto. Quando è arrivato ho un po’ gli ho spiegato com’è qua la situazione, com’è l’ambiente. Il Mister è un uomo molto in gamba, ha capito subito la situazione e ha lavorato subito sull’aspetto psicologico perché venivamo da una stagione molto difficile. Certa gente ama quando qualcosa va male, per questo accentua gli aspetti negativi, per far male alla società, ai giocatori. Ma io so che quando ho giocato ho sempre dato il 100%. A volte non puoi dare tutto quello che vuoi. È la vita dei calciatori. Noi proviamo sempre a dare il massimo e i tifosi hanno tutto il diritto di essere arrabbiati quando in due stagioni arrivi quinto o sesto. Non sono stagioni da Roma, è normale che protestano. Adesso siamo lì dove dobbiamo essere e vogliamo portare gioia ai nostri tifosi».
Non è mai troppo presto per pensare al futuro.
Negli ultimi due anni, anche grazie a una continuità che prima non aveva per via degli infortuni, Pjanic ha alzato l’asticella del proprio gioco e a giudicare dalle prime partite di questa nuova stagione sembra pronto a un nuovo salto di qualità. Ha migliorato il suo tocco, anche perché i compagni gli passano palloni migliori, e il suo ritmo è migliorato insieme a quello della squadra. Da una parte continua a giocare con una maturità fuori dalla norma, dall’altra quell’aggressività che si vede fin dai suoi primi video lo porta a minacciare in modo più diretto le difese avversarie.
Dopo il gol vittoria di Parma, Totti lo ha chiamato “il nostro principino” e qualcuno a Roma si chiede se non possa essere il bosniaco il suo erede: «Come posso essere l’erede di Totti? Tutti sognano di essere l’erede di Totti ma non è facile. Totti è Totti, è qualcosa di più del solo calcio. Ha fatto la storia del calcio italiano, è una leggenda. È bellissimo il fatto che non abbia mai cambiato maglia. Ha avuto fortuna, a non dover mai cambiare maglia». Gli chiedo se è possibile identificarsi con una squadra, con una città, anche solo dopo un paio di stagioni. «Perché no? Il calcio è cambiato e a volte sono le società ad aver bisogno di soldi, non è sempre il calciatore che va via. Io ho avuto l’opportunità di andar via, però mi sento così bene che, mi chiedo, perché devo andar via se amo questa squadra, se amo questa città e voglio vincere qui?».
Fonte: Ultimouomo
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