Non è ancora un sì definitivo, ma è un via libera «politico», sostanziale, anche se infarcito di «se», di «ma» e di quelle che — in gergo tecnico — si chiamano «prescrizioni». Secondo la maggioranza di centrosinistra che governa la Capitale, lo stadio di proprietà di James Pallotta, dove giocherà la Roma, a Tor di Valle, si può fare. A patto che, però, vengano rispettati alcuni «paletti». È il sunto di una lunga riunione, in Campidoglio, alla quale hanno partecipato l’assessore all’Urbanistica Giovanni Caudo, i capigruppo dei partiti che sostengono Marino (Francesco D’Ausilio per il Pd, Luca Giansanti per la Civica, Gianluca Peciola per Sel, Massimo Caprari per il Centro Democratico), il coordinatore Fabrizio Panecaldo, i vari presidenti di commissione «interessati»: vertice allargato, per eliminare il rischio di «agguati» in aula Giulio Cesare.
Alla fine, tre sono i vincoli che verranno inseriti nella delibera di giunta che verrà discussa dopodomani e che conferirà al «progetto stadio» il bollino di «interesse pubblico». Primo: il 70% delle opere strategiche deve essere pronto prima dell’inaugurazione dell’impianto. Si tratta del prolungamento della metro B da Magliana, il ponte sul Tevere, il collegamento ciclo/pedonale col treno verso Fiumicino, il rifacimento della via del Mare dal Gra allo stadio. Fino a che uno di questi cantieri rimane aperto, lo stadio non può essere inaugurato. E se uno salta, addio interesse pubblico. Solo il parco videosorvegliato e la via del Mare fino a ponte Marconi si possono fare anche a stadio in funzione.
Secondo, la proprietà della struttura. Lo stadio non è «della Roma» ma del suo presidente, l’americano James Pallotta, che agisce come una holding: una società è la squadra, l’altra lo stadio. La Roma ci potrà giocare, secondo l’accordo deciso dal Cda societario, per 30 anni, ad un canone di 2 milioni. In Campidoglio, però, si chiedono: cosa succederà dopo? O prima, se Pallotta vendesse uno dei due asset? L’obiettivo della maggioranza è inserire il concetto di «vincolo indissolubile» tra impianto, la Roma e la città.
Una possibilità è che, al termine dei trent’anni — o anche al termine della convenzione urbanistica — lo stadio diventi a tutti gli effetti di proprietà della As Roma. È l’opzione giuridicamente più complessa: per la legge sugli stadi, infatti, basta che uno stadio sia «legato» in qualche modo ad una squadra e società sportiva. L’altra ipotesi è che, anche qualora cambi la proprietà, i nuovi acquirenti dell’uno (stadio) o dell’altra (squadra) si «accollino» il vincolo.
Per renderlo ancora più stringente, si pensa anche ad una sorta di «clausola rescissoria». Un intervento urbanistico di quel tipo costerebbe al proponente 160 milioni di euro di cosiddetto contributo straordinario. Soldi che Pallotta-Parnasi non versano, perché ne garantiscono 320 in opere pubbliche (195 dei quali «compensati» dal Comune in cubature). Se, per qualunque motivo, si volesse rompere il vincolo, i proprietari dovrebbero versare anche quei 160 milioni.
Strada in discesa? Non proprio. Anzi, ora scatta il conto alla rovescia. Dopo la giunta, l’Assemblea Capitolina si pronuncerà entro fine mese, poi devono arrivare i progetti definitivi e da lì scattano i 180 giorni per la conferenza della Regione. Non solo: la delibera comunale potrà essere «emendata» dai cittadini, e anche queste osservazioni andranno all’esame della Pisana. Se Pallotta vuole tagliare il nastro per i 90 anni giallorossi, il 22 luglio 2017, l’impresa — per come vanno le cose in Italia — appare ardua. E con la limatura alle cubature (da un milione a 900 mila metri cubi), il margine dei proponenti si è già un po’ assottigliato. Se nascono altri problemi, il gioco potrebbe non valere più la candela. In Campidoglio, però, sono fiduciosi. Tanto che Caudo, nella riunione, ha parlato di «dieci bugie» su Tor di Valle. «Quella — ha spiegato l’assessore — non è un’area agricola: ci sono già 400 mila metri cubi autorizzati. E l’indice di edificabilità, anche con lo stadio, rimane basso». Però, per allargare il fronte dei consensi, c’è un’altra postilla, richiesta dall’Acer: che l’investimento (1,2 miliardi) abbia una ricaduta anche sulle piccole e medie imprese romane. Piccoli lotti, perché una «torta» così ampia sia divisa in tanti piccoli pezzi. È l’ultimo paletto, ma non è di poco conto.
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