(S. Filippetti) – Fate i tifosi, ma non fate gli azionisti. Il calcio sarà pure lo sport nazionale in Italia ma la squadra del cuore farebbe meglio a rimanere confinata allo stadio. Perché la passione calcistica non paga se si tratta di investimenti finanziari. Il binomio Borsa-Calcio non ha regalato soddisfazioni a Piazza affari: Juventus FC, As Roma e SS Lazio, i tre club quotati in Borsa, hanno distrutto quasi tutto il loro valore.
I pluri-campioni d’Italia, per esempio, sono una macchina da trofei in Serie A, con tre scudetti di fila vinti negli ultimi tre anni con il record dei 100 punti in campionato, ma sul listino sono da retrocessione. Dalla quotazione, nel lontano dicembre 2001, hanno bruciato l’87% della capitalizzazione. Il tifoso che avesse investito 100 euro se ne ritroverebbe oggi solo 13. E nel tempo ha pure dovuto versare altri soldi nella società (pena diluirsi): i bianconeri hanno fatto due aumenti di capitale, per circa 220 milioni, nel corso degli anni.
Non va meglio per le due squadre della Capitale: il Derby in Borsa lo vince, in negativo, la Lazio di Claudio Lotito, reduce dal successo per la nomina di Carlo Tavecchio a presidente della Figc di cui è stato uno dei grandi elettori. I biancocelesti accusano un pesante -97% dal giorno dell’approdo sul listino (a maggio del 1998, prima squadra italiana a quotarsi in Borsa). Praticamente distrutto l’intero valore della società.
I cugini della Roma (passata attraverso due ricapitalizzazioni da circa 164 milioni) hanno visto evaporare il 71% del valore. Ma il club giallorosso, primo a finire in proprietà a un imprenditore straniero (l’americano James Pallotta che proprio due giorni fa ha rilevato la quota residua che la banca Unicredit aveva nel team) è stato anche uno dei casi più clamorosi in Borsa: una salita a razzo, + 150% in dodici mesi, sulla scia dell’ingresso del nuovo patron statunitense.
Qual è dunque la verità tra quel -71% e quel + 150%? Una lettura storicistica è che tutte le tre società sbarcarono in Borsa tra il 1999 e il 2001, ossia quando la Borsa era ai massimi storici. Solo da poco si è arrestato il deflusso di fondi innescato dalla crisi del 2008 che ha poi colpito in particolare le small cap. E siccome sui mercati più che la bontà estrinseca di un’azione, conta soprattutto il tempismo, meglio sarebbero andate le cose per chi fosse entrato per tempo dopo la quotazione. Per esempio, avendo ipoteticamente comprato nel 2009, in piena crisi finanziaria, le perfomance sarebbero totalmente diverse: +37% la Lazio, +34% la Roma. Sempre negativa invece la Juve (-42%), ma molto meno rispetto all’Ipo.
Ma chi è che investe nei club di calcio da socio di minoranza? L’identikit è semplice: i piccolo azionisti dei club di calcio sono perlopiù gli stessi tifosi. Che non comprano azioni con la logica dell’investitore finanziario, ma per affetto, per il piacere di sentirsi proprietari di un pezzo della loro squadra. Difficilmente dentro l’azionariato dei club figurano investitori istituzionali o professionali.
D’altronde stiamo parlando di titoli con una capitalizzazione spesso modesta, soggetti a forti oscillazioni e su cui, nel breve periodo, incidono fattori come i risultati di una partita, particolarmente difficili da prevedere. La volatilità e il leitmotiv dei club in Borsa. Dopo una vittoria, il lunedì mattina partono puntualmente al galoppo, sull’entusiasmo dei tifosi che comprano. Dopo una sconfitta, esattamente il contrario. La dura vita del tifoso-azionista.
Fonte: Il Sole 24 Ore
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