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HALL OF FAME De Sisti: “Roma grande emozione. Il derby del sorpasso vinto sotto la pioggia con la rete di Prati fu incredibile”

Hall of Fame giallorossa

Ma guarda te, c’ho settant’anni e ancora piango quando ricordo i miei anni da calciatore…”. Per Giancarlo “Picchio” De Sisti – tra i centrocampisti votabili nella Hall of Fame 2014 – la Roma è stata la vita: ci è nato, cresciuto e diventato grande. È stato anche per nove anni un centrocampista fondamentale di una Fiorentina scudettata, a Firenze lo hanno nominato cittadino onorario, “ma la Roma è stata la Roma”, dice De Sisti con la voce rotta dall’emozione a distanza di tanto tempo.

Il suo percorso nella Roma iniziò nel settore giovanile dove vinse due titoli consecutivi nel “Campionato Ragazzi” nel 1959 e 1960. Mica male…

“Sì, non solo, ci aggiudicammo anche due coppe Italia. Eravamo una squadra fortissima, tutti potevano sfondare e diventare grandi calciatori di Serie A, ma l’allenatore di allora Foni decise di affidarsi a me perché in campo facevo cose semplici e davo sicurezza”.

Che calcio era quello giovanile di allora?

“Era un movimento più selettivo. Non esistevano scuole calcio, ma si facevano provini dai quali gli istruttori decidevano se prenderti a giocare con una squadra o meno. I maestri non erano necessariamente personaggi noti, anche se quelli che ho avuto io – in particolare uno – è stato un grandissimo della storia della Roma”.

Il nome?

“Guido Masetti, il portiere del primo scudetto nel 1942. Un uomo dalla spiccata personalità, bastava uno sguardo per capire cosa voleva. Mi insegnò molto”.

Lei come finì nelle giovanili giallorosse?

“Mi presero da una squadra di San Giovanni, la Forlivesi, dove mi portò mio padre per non litigare con mia madre…”.

Addirittura litigare?

“Già, giocavo nella parrocchia di Santa Maria del Buonconsiglio sulla Tuscolana. La sera tornavo a casa sudato e mia madre si preoccupava che mi ammalassi. Mio padre, invece, era d’accordo: lui era stato un buon giocatore di Serie C e non gli dispiaceva affatto l’idea che anche io ricalcassi le sue orme. Insomma, questo era un argomento che li faceva discutere. Per trovare un punto d’incontro mia madre disse a mio padre: “Porta tuo figlio a una scuola calcio dove può farsi la doccia e tornare a casa in condizioni decenti”. Lui non se lo lasciò ripetere due volte. Andammo alla Forlivesi, superai il provino e da lì iniziò tutto”.

E poi arrivò la Roma.

“Esatto, che mi notò a quindici anni. E lo sa come mi pagarono i dirigenti romanisti?”.

No, come?

“Diedero al club undici maglie e undici paia di scarpe: di materiali del genere ce n’era sempre bisogno…”.

A 18 anni non ancora compiuti il suo esordio in Serie A. Che ricordi ha?

“La prima volta in campionato non andò benissimo. Piansi tanto perché non giocai bene. Quel giorno, il 12 febbraio del 1961, l’allenatore Foni mi diede questa grande opportunità, ma mi schierò all’ala destra per sostituire Orlando. Io ero un centrocampista centrale, dal passo nemmeno tanto veloce. Insomma, avevo caratteristiche che non si sposavano al meglio con il ruolo di esterno. Ma non ci pensai, in fondo era una possibilità unica. E così, parlai con un mio compagno di squadra, il mediano Luigi Giuliano, per trovare una soluzione tattica che permettesse di mettere in difficoltà questo terzino, che si chiamava Valenti. Purtroppo non ci capimmo e andò male per tutti, tanto che perdemmo 2-1”.

Invece andò bene per lei a Firenze nell’ultima giornata di quello stesso campionato.

“Vero. Foni decise di rimettermi in campo e stavolta disputai una grande partita. Il merito fu soprattutto di Schiaffino che mi aiutò moltissimo in campo e mi diede fiducia. Giocata dopo giocata presi consapevolezza e sfoderai un’ottima prestazione. Vincemmo 1-0 con gol di Menichelli”.

Ha nominato Schiaffino, uno dei calciatori più importanti di sempre, presente anche lui nella categoria “centrocampisti” nella Hall of Fame 2014. Quanto apprese da lui?

“Dico solo che è stato uno degli uomini fondamentali nella mia crescita professionale. Per me era una sorta di divinità. Era a fine carriera, ma dava sempre dimostrazione della sua classe. Sul terreno di gioco e fuori. Di lui ammiravo soprattutto l’umiltà: veniva ad allenarsi con la Seicento o spesso anche in autobus. Amava ripetere una frase: “Quanto è faticoso fare il calciatore: allenamenti e partite, partite e allenamenti. Ma sempre meglio che lavorare…”. Se sono diventato uno dei più grandi recuperatori di palloni di quell’epoca lo devo soprattutto a lui che mi insegnò come intercettare la sfera guardando negli occhi l’avversario nel momento del passaggio decisivo. Con questo trucco ne ho fregati tanti…”.

A proposito di uruguaiani: Ghiggia?

“Un altro mostro sacro, un altro che, come Schiaffino, fece piangere il Brasile nel “Maracanazo”. Capitò di allenarmi con Alcide nella squadra riserve. Una volta eravamo io, lui, Manfredini, Schiaffino e Selmosson. Capito? Tutti questi nella squadra riserve. Inutile dire che io ero il più scarso tra loro… Comunque, ho un aneddoto simpatico. Per un periodo Ghiggia faceva panchina a Orlando e a lui questa cosa non andò giù. Durante un allenamento con le riserve, mi chiamò per andare da lui: “Picchio, vieni qui: sei uno dei pochi che può palleggiare con me”. Io andai e quasi mi vergognavo. E durante i palleggi mi fece: “Ma è giusto che uno come me deve fare la riserva a Orlando?”. Io avevo 18 anni, che gli potevo dire? Ero un ragazzetto, non gli risposi… Mi misi a ridere”.

In quel periodo la Roma vinse una Coppa Italia e la Coppa delle Fiere, ma incontrò anche gravi difficoltà economiche culminate nella colletta del Sistina del 1965. Che momento fu?

“Non fu un bel momento, ma in quella giornata capii quanto fosse grande l’attaccamento dei tifosi per la squadra. Ricordo che presero la parola il tecnico Lorenzo e il grande capitano Giacomino Losi. Raccogliemmo seicentomila lire, una bella cifra, ma non sufficiente per le esigenze della società. E così decidemmo di devolvere quella somma in beneficenza per le vittime del Vajont. Dopo quella colletta, venimmo derisi in giro per l’Italia più o meno da tutti. A Verona ci tirarono le monetine per umiliarci”.

L’anno dopo, nel ’66, passò alla Fiorentina dove restò 9 stagioni e vinse uno scudetto, un’altra coppa Italia e la Mitropa Cup. Nel ’74 Anzalone la riportò nella Capitale. Come andò quel nuovo trasferimento?

“A Firenze diventai cittadino onorario, questo per far capire quanto mi trovai bene. Ma quando mi comunicarono la cessione ai viola scoppiai in lacrime disperato. Io stavo benissimo co’ ‘a mi’ ragazza, mi madre, ’a Roma, me sembrava ‘n incubo… (racconta in romano stretto, ndr). Per fortuna poi le cose andarono per il meglio e dimenticai tutto in fretta. Peccato che ad un certo punto alla Fiorentina venne un allenatore con cui non mi trovai, Radice. Arrivato a fine stagione, tra duemila incomprensioni, non potevo più sostenere quella situazione. Addirittura persi chili per il nervoso. Parlai col presidente: “Se Radice resta alla Fiorentina, io me ne vado”. E non cambiai idea. Mi chiamò il direttore sportivo della Roma di allora, Camillo Anastasi, e mi disse che sia il presidente sia Liedholm mi volevano a tutti i costi. Io chiamai in società alla Fiorentina per comunicare l’offerta giallorossa: “Guardate, io voglio andare alla Roma e solo alla Roma. Vendetemi e fate pure lo sconto ad Anzalone…”.

Nella stagione del suo ritorno a Roma trovò una Lazio con il tricolore sul petto.

“Era quello che dissi ad Anastasi appena accettai l’offerta: “Guardate, la Lazio sta prendendo il sopravvento. Bisogna fare qualcosa…”.

Non a caso lei decise il derby d’andata nel ’74 e in quello di ritorno superaste la Lazio al terzo posto.

“Per quella stracittadina che vincemmo con il mio gol la tifoseria mi regalò l’elmo da antico romano. E il derby del sorpasso vinto sotto la pioggia con la rete di Prati fu un’emozione incredibile…”.

Nel 1976-’77 tra i suoi compagni di squadra figurava Walter Sabatini, attuale Direttore Sportivo della Roma: che giocatore era?

“Un’ala destra che dribblava sempre, un funambolo. Una volta ebbe un battibecco piuttosto acceso con Rocca. I due arrivarono quasi alle mani, ma si mise in mezzo Liedholm: “Adesso fate a botte tutti e due con me…”. In questo modo riuscì a calmare gli animi. Che grande uomo, il “Barone”…”.

LEGGI L’INTERVISTA ORIGINALE

Fonte: asroma.it

danilo sancamillo

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