La Roma ha significato troppo per lui e continua a significare troppe cose: “Qui sono diventato grande e ho vinto i primi trofei della mia carriera. Quando andai via io e mia moglie piangemmo”. Fabio Cudicini è stato il portiere giallorosso per otto anni, dal 1958 al 1966: una Coppa Italia (1964) e una Coppa delle Fiere (1961) sono i ricordi più belli del suo periodo romanista. È senza dubbio uno dei migliori interpreti del ruolo di sempre. Non a caso, quest’anno il suo nome è tra i candidati alla Hall of Fame 2014 nella categoria “L’era dei pionieri” con Rodolfo Volk e ben tre suoi ex compagni di squadra: Dino Da Costa, Alcides Edgardo Ghiggia e Pedro Manfredini. Per quest’anno soltanto uno di loro entrerà nel novero dei grandi del club, “ma per me è già un onore essere ancora ricordato a distanza di tanti anni”, sottolinea Cudicini.
Arriva alla Roma dall’Udinese nell’estate del 1958 e complice un’influenza del titolare dell’epoca, Luciano Panetti, si toglie immediatamente il cruccio dell’esordio: 1-0 al Catanzaro in Coppa Italia nella prima partita ufficiale della stagione e 3-3 a Padova per il debutto in campionato. Collezionerà in tutto 209 presenze in una squadra spesso pesantemente sbilanciata e priva di stabilità tecnica. Nella stagione che precedette l’arrivo di Cudicini in giallorosso si era verificato il ‘giallo’ della trasferta di Napoli, costata la panchina all’inglese Alec Stock: informato male circa il binario di partenza – a quanto pare con un pizzico di malizia da parte di qualcuno – il tecnico britannico si sistema con un interprete su un treno che parte dopo quello su cui si sistema la squadra. In sintesi: Stock arriva a Napoli con due ore di ritardo e, soprattutto, con una squadra titolare disegnata dal direttore sportivo Busini con la collaborazione di Gunnar Nordahl, che si tira fuori con quello che oggi chiameremmo ‘mal di pancia’. L’assenza di Nordahl promuove centravanti titolare un giovanissimo esordiente, Alberto Orlando, mentre per Stock significa il capolinea. Lo rimpiazzeranno Nordahl come allenatore-giocatore e lo stesso Busini.
“Alla Roma arrivai proprio grazie al direttore sportivo di allora, Busini. Mi conosceva dall’Udinese e mi fece questa proposta che accettai con entusiasmo. Avevo 24 anni, l’età giusta per fare il salto di qualità in una piazza importante. Il mio cartellino costò 30 milioni , lo ricordo bene. Un costo normale per un giocatore dell’epoca”.
Il succedersi degli allenatori non gioca a favore e spesso causa più di qualche malumore. Ottobre 1962, sesta giornata di campionato e penultimo atto dell’altalenante esperienza di Luis Carniglia sulla panchina giallorossa: a Ferrara la Roma affronta la Spal e dopo appena 10 minuti di gioco Cudicini esce coraggiosamente sull’ala destra Dell’Omodarme pagando con un brutto colpo alla testa una provvidenziale deviazione corner. Il numero uno romanista resta a terra un minuto buono assistito da Angelino Cerretti, si rialza e torna tra i pali rimanendoci coraggiosamente fino al 20’, quando l’arbitro Adami ferma il gioco vedendolo eccessivamente sofferente. Cudicini viene convinto a lasciare la sua maglia verde numero 1 a Francisco Ramon Lojacono, che da bomber di inizio stagione (4 gol nei primi dieci impegni ufficiali) è costretto a giocare in porta incassando tre reti (finirà 3-0). Una settimana dopo, in casa contro il Vicenza, Cudicini ancora convalescente lascerà il posto al giovanissimo esordiente Alberto Ginulfi, già campione d’Italia con la Juniores romanista. I giallorossi escono sconfitti per 1-0, Carniglia viene esonerato mentre la tifoseria invoca il grande rivale dell’ormai ex tecnico romanista, Pedro Manfredini. ‘Piedone’ ritrova la maglia da titolare e ad iniziare dalla trasferta di Palermo sfoga tutta la sua voglia di campo e di gol: ne fa 3 ai rosanero, 4 nel 10-1 imposto in Coppa delle Fiere all’Altay Izmir, uno alla Fiorentina, doppietta nel 2-2 con il Torino, un altro centro nel 4-2 imposto in coppa al Real Saragozza. Undici gol in 6 partite, uno spettacolo a cui Cudicini assiste da quella porta che aveva iniziato a difendere 4 anni prima.
Da Udine alla Capitale, fu complicato l’ambientamento da una piccola a una grande realtà?
“No, affatto… E lo sa perché?”.
Perché?
“Prima di tutto mi trovai subito in sintonia con l’allenatore ungherese Sarosi, che mi fece sentire a mio agio in un ambiente nuovo, ma poi potevo contare sull’appoggio dei miei zii che vivevano a Roma. Andavo tutte le sere a mangiare da loro e dormivo in una pensione. Il loro aiuto all’inizio fu fondamentale”.
Dei compagni di squadra, invece, con chi legò di più?
“Io mi trovavo bene con tutti, ma in particolare strinsi un bel rapporto con Giacomo Losi. Anche le nostre mogli erano amiche e capitava spesso di ritrovarci insieme. Abitavamo entrambi a Monte Mario, portavamo i nostri figli nella stessa scuola”.
Losi era anche il suo capitano sul terreno di gioco.
“E che capitano… Un leader. Aveva grinta e cattiveria, era particolarmente attaccato alla maglia. E questo suo attaccamento lo trasmetteva anche a noi. Mi onoro di averlo conosciuto”.
In campo arrivarono risultati importanti, considerata la dimensione della Roma di allora.
“Vincemmo Coppa Italia e Coppa delle Fiere. Non lottammo mai per il vertice della classifica in campionato, ma andò bene così. Eravamo una bella squadra con tanti giocatori bravi come Lojacono, Manfredini, Corsini, Carpanesi, Guarnacci. E guidati da grandi tecnici come Foni prima e Carniglia poi”.
A proposito di tecnici, è vero che con Pugliese non ci fu grande feeling?
“Non lo nego… Fu lui a chiedere a Evangelisti la mia cessione. Proprio così, andò dal presidente con le idee chiare: “Se vuole che io continui ad allenare la Roma, deve mandare via Cudicini. O lui o me”. Scelsero me. E quando mi chiamò nel suo ufficio per comunicarmi la vendita al Brescia, Evangelisti mi abbracciò pronunciando belle parole: “Sei una persona intelligente, sono sicuro che comprenderai la mia decisione”. Non solo, mi chiese pure un parere sul mio erede alla Roma. Mi fece: “Tu sei del mestiere, devo prendere un portiere tra Zoff e Pizzaballa. Tu chi mi consiglieresti?”. E io: “Prenda Zoff”. Ma non andò così, Pugliese preferì Pizzaballa”.
In che occasione nacque l’attrito con Pugliese?
“Al termine di una partita con la Fiorentina. Scesi in campo in condizioni non ottimali, per questo presi un gol evitabile. In poche parole, feci una brutta figura e mi arrabbiai. Prima del match chiesi espressamente a Pugliese di risparmiarmi, ma lui non si fidava del mio vice, Matteucci. Mi convinse così a giocare dicendomi: “Con te in porta andiamo in Paradiso…”. Queste erano le sue frasi tipiche”.
E poi che accadde?
“Una volta tornato negli spogliatoi, mi tolsi la maglia, la gettai con forza sulla panchina e dissi: “Non scenderò mai più in campo così…”, alludendo al mio stato fisico. Un gesto rabbioso, è vero, ma niente di trascendentale. Sta di fatto che, per quell’episodio, Pugliese andò da Evangelisti a chiedere il mio allontanamento da Roma. Secondo lui avevo mancato di rispetto a tutti”.
Ma perché accettò il trasferimento al Brescia, una squadra meno blasonata?
“Diciamo che si trattò soprattutto di una questione politica. Ero apprezzato dal sindaco di Brescia, tale Boni. Un democristiano amico di Evangelisti. Quest’amicizia permise l’affare, tanto che non mi pagarono nemmeno molto nonostante non fossi del tutto a fine carriera. Andai via da Roma in lacrime e a Brescia mi trovai male giocando poco. Per fortuna durò un anno e poi arrivò il Milan. Ma una soddisfazione me la tolsi con la maglia del Brescia…”
Quale?
“Verso la fine del campionato ’66-’67 andammo all’Olimpico a giocarci la permanenza in Serie A contro la Lazio. Io fui schierato titolare, vincemmo 2-0 in trasferta e loro al termine della stagione andarono in B. Non male per un romanista come me…”.
Fonte: asroma.it