(A. De Calò) – Ogni tanto ti guardava con quegli occhi sottili, le rughe sottolineate dal sorriso largo, e anche se aveva appena detto con grande enfasi una cosa apparentemente banale, stava lì: continuava a fissarti furbo — in un breve momento infinito — quasi per indagare se avevi colto anche l’altro aspetto della vicenda, quello non raccontato. Vujadin Boskov, scomparso ieri a 82 anni, è stato un grande uomo di calcio, un uomo del secolo scorso. Ancora adesso, in Italia, in Spagna e in altri paesi del mondo continuiamo a ripetere frasi che diceva lui. «Futbol es futbol » è una delle sue massime tautologiche, famose a Madrid fin dai tempi in cui allenava il Real di Camacho, Stielike e Santillana, a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. Vale come il celebratissimo ritornello «rigore è quando arbitro fischia» che ci ronza ancora nelle orecchie e continua ad avere un senso, abbastanza disarmante.
Mitteleuropa Figlio di serbi, cresciuto tra le due guerre mondiali a Novi Sad, nella Vojvodina, Boskov ha visto crescere e sparire la Jugoslavia, misurandosi molto presto con la fragilità dei confini. La sua terra è stata austriaca e in parte ungherese, gli ha dato il respiro e l’ironia che segna la Mitteleuropa, la voglia di aprirsi al mondo e di assecondarlo, l’istinto di spararle grosse e di essere concreto, la capacità di comandare ma non troppo. Nel nostro calcio, Boskov è stato quasi una naturale continuazione degli Helenio Herrera e Nereo Rocco. Aveva quel carattere debordante, la capacità di condizionare l’ambiente col suo buon umore o di seppellire le figuracce con qualche battuta folgorante. Questa ha fatto storia a Madrid, dopo un flop in amichevole col Bayern: «Preferisco perdere una partita per nove gol, piuttosto che nove per uno a zero». Fa il verso a «meglio ricchi e sani che poveri e malati», è vero, ma dipende chi lo dice, quando, con che faccia, con quale voce e come ti guarda divertito, poi.
Ascoli Vujadin Boskov è arrivato in Italia nel 1985, per allenare l’Ascoli. Chiamato da Italo Allodi, il mago dei manager dell’epoca, covava la prospettiva di sedersi sulla panchina della Juve. Non ci è mai arrivato. Ha allenato anche la Roma —— dove ha lanciato Totti —, il Napoli e il Perugia, ma il suo momento felice resta legato agli anni di Genova, con la Sampdoria. Da giocatore, Boskov aveva vestito la maglia blucerchiata. Una scheggia di partite, all’inizio degli anni Sessanta. Tornare a Genova era come mettere piede in una delle sue case (arriverà ad averne sei, a un certo punto, sparse per l’Europa). Al suo arrivo trova una squadra spaccata dalle polemiche e dai clan. Il presidente della Samp era Paolo Mantovani, petroliere con molti soldi e voglia di investirli nel calcio. Piano piano, all’inizio degli Ottanta, aveva cominciato a collezionare i migliori giovani del calcio italiano. Roberto Mancini, Luca Vialli, Pietro Vierchowod, Gianluca Pagliuca e gli altri baby crescono così, non senza sgomitare con vecchi mostri sacri del calcio anglosassone come Travor Francis e Liam Brady.
Cruijff La Sampdoria diventa uno strano arcipelago, una versione bonsai del vecchio impero austroungarico, con tanti centri di potere. Comanda il presidente, comandano un po’ di giocatori a cominciare da Mancini e Vialli, comanda anche l’allenatore. Negli anni in cui Silvio Berlusconi sbarca nel calcio e Arrigo Sacchi proietta la sua rivoluzione in Europa e nel mondo, la Samp vive in una specie di comune local-aristocratica. Tra una partita e l’altra i giocatori organizzano cene, si frequentano anche fuori dal campo, vivono tra Nervi e Bogliasco in una specie di oasi che ha i tempi dilatati della Costa Azzurra. Boskov impone canoni e modelli ma poi sta lì ad ascoltare e a mediare, a tenere assieme i baby d’oro con i Katanec, i Dossena, i Cerezo e i Mikhailichenko che arrivano da lontano. Boskov è l’animatore di un’enclave irripetibile a questi livelli, nel grande calcio. Costruiva le vittorie molti giorni prima di scendere in campo, come sa fare in questi giorni Mourinho con il Chelsea. Prima di una finale di coppa Coppe contro il Barcellona, Boskov si era divertito ad attaccare Johan Cruijff, senza alcun timore verso il guru olandese. «E’ stato un grande giocatore, ma da allenatore non ha fatto niente, io vengo dal Real Madrid… ». La botta serviva per dare alla Samp una nobiltà che ancora non aveva, per mettere un braccio sulle spalle dei suoi giovani giocatori e proteggerli da vecchio zio.
Coppa Campioni Per noi giornalisti, Boskov era una manna. Dava quasi ogni giorno un titolo da prima pagina. Ma dentro al mondo Samp – per dirla tutta – l’effetto era un po’ straniante. Perché Vujadin aveva spesso dei ricordi trionfali da raccontare e tu facevi fatica a pensare che potessero essere tutti veri. Lo erano, invece, quasi sempre, quasi tutti. Come la laurea in geografia e storia, come la citazione nel film di Kusturica («Papà è in viaggio d’affari») che vince la Palma d’oro a Cannes, come la capacità di trascinare quella Samp al vertice dell’Europa calcistica. Alla resa dei conti, Boskov costruisce una verticale che passa per due coppe Italia, una coppa delle Coppe, l’unico scudetto nella storia blucerchiata (1990-91) e una memorabile galoppata nella Champions 1991-92 chiusa con una sconfitta contro il Barcellona, ancora il Barça di Cruijff.
Congedo A Wembley, in quella sera di maggio segnata dal tracciante di Ronald Koeman finisce un mondo. Luca Vialli va alla Juve, dove lo seguiranno Vierchowod e altri. Boskov passa per la Roma e fa tappa a Napoli, prima di rimbalzare in Svizzera e poi ancora velocemente a Genova e a Perugia. Lo zingaro ormai è un vecchio professore. Quando chiude da citì con la Serbia nel 2000 viene issato sul pennone come una bandiera che sventola. Restano le sue parole: «Meglio vincere che pareggiare, e meglio pareggiare che perdere». Resta il suo sorriso bonario e contagioso, con gli occhi stretti come quello di Robert De Niro nel fermo immagine che chiude «C’era una volta in America ». Adios Vuja.
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