L’uomo ha due teste. Con una ti sorride e ti parla, con l’altra ti pesa. Ha voluto sapere tutto di te, prima. E adesso si gioca l’intervista. Farlo uscire allo scoperto non è cosa semplice, ma se ci sta è più vita che calcio. Classe 1964, radici andaluse e un passato da calciatore e allenatore in Francia, a cinquant’anni Rudi Garcia si è ritrovato mago della Roma e di Roma. Probabilmente davanti a un bicchiere di rosso della Borgogna avrebbe staccato un po’ di più i piedi da terra, ma sarà per la prossima volta. “Tutte le strade portano a Roma”, dice la sua autobiografia. Molto misurata, fin troppo.
Mister Garcia, lei non si arrabbia mai?
“Sì, certo che succede. Ma io sono così, misurato. Non mi piace l’euforia e non mi piace cadere nel pessimismo”.
E non alza mai la voce?
“A volte, è normale. Se sei sempre uguale c’è qualcosa che non va. Se urli troppo, dopo un po’ quello che dici entra da una parte ed esce dall’altra. E se non urli mai, non va bene lo stesso. Quindi, se l’arrabbiatura arriva ogni tanto vale di più”.
Ha studiato Scienza dello sport. E psicologia?
“Qualche corso con la Federazione, ma niente di specifico”.
Però le piace.
“Tanto”.
E la applica, mi pare.
“In modo naturale. Col buon senso e la logica”.
Sa, una delle cose che hanno stupito è stata questa sua rapidità nel riuscire a ricostruire un ambiente e una squadra che sembravano aver smarrito la propria identità.
“Ma no, è stato facilissimo”.
Addirittura.
“Beh, quando si è così a terra non si può che risalire. L’unico segreto è stato di concentrarmi sui giocatori e non sull’ambiente intorno. Fargli riacquistare il piacere del gioco. In fondo, noi allenatori e loro stiamo bene quando in campo le cose funzionano. E per farle funzionare bisogna andarci con gioia. Poi il resto viene quasi da solo. I giocatori prendono gusto ad allenarsi e a vincere giocando bene”.
Lavora più sui pregi o sui difetti?
“Sulla qualità di un giocatore, perché se c’è bisogna mantenerla. Soprattutto se non è un ragazzo. Poi lavoro anche sui difetti”.
Glielo chiedo perché molti sostengono che la sua bravura sia stata soprattutto quella di capire subito i difetti di questa squadra, e di questa città.
“Non lo so. Quando sono arrivato mi sono tappato le orecchie, per non ascoltare i consigli degli altri. E anche gli occhi, per non guardare le partite del passato. Compresa quella finale di Coppa Italia. Per me è importante ciò che vedo e che voglio fare con la squadra”.
E la città?
“Si goda il momento felice. Senza complessi di inferiorità nei confronti del Nord. Noi siamo la capitale, siamo forti, abbiamo tante belle cose da vivere insieme”.
Quanto tempo dedica alla testa dei calciatori e quanto alla tecnica?
“All’inizio era settanta per cento lavoro sul campo e trenta per cento gestione degli uomini. Adesso è tutto cambiato, c’è molta più pressione sui calciatori da parte dell’ambiente, dei media e dei social network”.
Si sta divertendo?
“Molto. Ma anche loro. Quando vedo una partita come quella che abbiamo vinto con l’Atalanta, sono sicuro che il mio piacere è stato anche il loro piacere. E tutto questo si trasferisce anche nel piacere dei tifosi”.
Fonte: Huffington Post
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