(L. Contucci) – Non c’è presidente della storia della Roma che non abbia subito contestazioni e tra questi, c’è anche Dino Viola, di cui ricorre oggi l’anniversario della morte.
Eppure, a distanza di 25 anni, tutti noi ricordiamo Dino Viola come un padre.
Fu incredibilmente vicino alla tifoseria, tanto che non si può fare una precisa distinzione tra il suo ruolo di Presidente e quello di tifoso.
E, sempre a distanza di cinque lustri, non possiamo non notare quanto lontano è quel calcio che tanto abbiamo amato.
Proprio in quegli anni, a ben vedere, vennero piantati i primi semi del detestato “calcio moderno” per certo non pensando che sarebbero germogliati distruggendo l’aspetto più popolare e passionale del tifo.
Dino Viola cercò di educare, con il dialogo e non con il bastone, una tifoseria che fino al 1979 era stata più che ribelle.
Dovette affrontare sin da subito la tragedia Paparelli, incommensurabilmente più seria di qualche striscione antipatico ma, ciò nonostante, non voltò mai le spalle ai suoi tifosi, anche a quelli più radicali che altri Presidenti hanno definito straccioni o idioti.
Questa fu la differenza, perché anche grazie a Dino Viola, la tifoseria giallorossa – proprio in quegli anni – divenne la più famosa d’Europa, crescendo insieme a una squadra e ad una Società che ci portò a un passo dall’inverosimile, quella Coppa dei Campioni infinitamente più romantica di qualsiasi Champions League dei tempi odierni, quella competizione in cui quando si giocavaRoma/Dinamo Berlino davvero c’erano di fronte una squadra italiana ed una tedesca dell’est.
Il ricordo che ho del Presidente è consacrato in una foto che sul web si trova ancora.
Prima di ogni partita faceva il giro del campo, accompagnato dai suoi collaboratori. La pista d’atletica era disseminata di agrumi, lanciati dai fedelissimi della Curva Sud che affollavano il settore almeno da tre-quattro ore prima dell’inizio di qualsiasi partita.
A volte serviva un furgoncino “Ape” per portarli via, tanti ne erano.
Lui raccoglieva un arancio, lo mostrava alla Curva e faceva segno di “no” con le mani. Spesso l’invito era vano, ma lui lo faceva lo stesso. Non credo che la curva si educò, tanto che – se la memoria ancora mi aiuta – l’usanza si interruppe con il massiccio sequestro di agrumi all’entrata da parte delle forze dell’ordine, ma comunque quel gesto non enfatizzato rientrava nella classe dell’Uomo che intese sottolineare a Boniperti, che gli aveva mandato un righello per misurare i centimetri del “fuorigioco” di Turone, come quello strumento fosse più adatto allo juventino, geometra, che non al giallorosso, ingegnere.
Uno scudetto e cinque Coppe Italia, con un settore giovanile che a sua volta vinse due scudetti e per tre volte il Torneo di Viareggio: la storia vincente della Roma l’ha scritta lui.
Certo, fece degli errori, dovuti all’ambizione, che la tifoseria comunque gli perdonò.
Non gli venne invece perdonato l’acquisto dell’ex bandiera laziale Lionello Manfredonia, che portò alla spaccatura della Curva Sud e ad una feroce contestazione da parte della tifoseria giallorossa più radicale. Anche la faccenda di Agostino Di Bartolomei non venne ben digerita, così come la cessione di Carlo Ancelotti.
Il Presidente in quelle situazioni si comportò da manager più che da tifoso, sicché la valutazione del suo comportamento muta dalla prospettiva in cui ci si pone: il tifoso, nella sua scala di valori, ha al primo posto i sentimenti, il manager i bilanci societari e le prospettive imprenditoriali.
E’ per questo che, in fondo e con la maturità raggiunta, lo abbiamo tutti perdonato e, mai come oggi, compiangiamo la figura di un Presidente che qualsiasi squadra di calcio non potrà mai più avere e che probabilmente stenterebbe a riconoscere lo Stadio Olimpico attuale.
Fonte: iogiocopulito.ilfattoquotidiano.it