PRUZZO CONTI/ASROMALIVE.IT – Trent’anni da quel giorno storico. L’8 maggio 1983 la Roma pareggiava col Genoa e festeggiava il secondo scudetto della sua storia. Oggi il Corriere dello Sport intervista due bandiere di quella squadra, due protagonisti che hanno reso felice un’intera città (o almeno buona parte).
Roberto Pruzzo di gol con la maglia della Roma ne ha fatti tanti (era il recordman prima che arrivasse Totti), però da concreto genovese li seleziona, li organizza nell’archivio della sua memoria: da una parte quelli che contano e dall’altro quelli che fanno statistica. Quello segnato esattamente trent’anni fa a Marassi rientra nel primo scaffale: diede alla sua squadra il secondo scudetto.
Con lei, Vico sarebbe andato a nozze: perché la sua storia professionale è stata perfettamente circolare.
«Non ci avevo mai pensato ma è vero».
Come fu vincere lo scudetto proprio a Genova contro il Genoa?
«Fu bellissimo. Genova è la mia città, in quel club sono cresciuto calcisticamente e come uomo: gioie, dolori, soddisfazioni, la fascia di capitano. Vincere a Genova è stato il momento finale di una crescita, non dico la realizzazione di un sogno perché normalmente non sogno, soprattutto a occhi aperti, più che altro il perfezionamento di una parabola professionale».
Non lo dica ai giovani calciatori di oggi: la consuetudine ormai postula che quando si realizza un gol da ex non si festeggia…
«Mi sembra una sciocchezza. Il primo gol che ho fatto a Genova l’ho festeggiato con un giro di campo e i miei vecchi tifosi hanno capito, non hanno detto nulla. Quello del calciatore è un mestiere che si fa con la valigia in mano: oggi sei qui, domani da un’altra parte».
L’8 maggio lo scudetto, il 5 maggio, esattamente trent’anni dopo, la promozione in Prima Divisione della squadra in cui ricopre il ruolo di direttore sportivo, il Savona. Maggio le porta fortuna?
«Sembra di sì. E pensare che non è nemmeno il mio mese visto che sono nato ad aprile».
L’emozione di tre giorni fa le ha ricordato quella di trent’anni fa?
«Da calciatori vivi le situazioni diversamente. Io poi non mi facevo coinvolgere troppo dalle emozioni: andavo in campo, facevo il mio lavoro e tornavo a casa. Da dirigente nelle cose sei molto più coinvolto. Poi domenica scorsa ho vissuto quell’ultima giornata anche da allenatore visto che sono andato in panchina».
Ha detto: dello scudetto ricorda tutto…
«Ricordo che fu la conclusione di un lavoro fatto bene. Eravamo consapevoli della nostra forza, delle nostre qualità».
Avete vinto meno di quel che sarebbe stato possibile?
«Sì. Avremmo potuto vincere almeno altri due scudetti: uno lo abbiamo buttato via noi, un altro diciamo che ci è stato tolto».
A Roma è rimasto legato.
«Sì, molto. Mi piace la città e mi piacciono i tifosi: appassionati, sempre vicini alla squadra ma alla resa dei conti non asfissianti. I migliori. Poi, per carità, il mio giudizio è parziale visto che ho giocato solo in tre squadre, cioè a casa mia a Genova e a Firenze che è sotto molti aspetti simile a Genova. Altre due belle piazze per il tifo».
Il gol di quella stagione a cui è più legato?
«Quello realizzato a Firenze. Finì 2-2. Non stavo benissimo eppure riuscii a segnare ugualmente. La verità è che Liedholm avrebbe potuto chiedermi tutto e io per lui avrei fatto tutto».
Per quello scudetto fu più fondamentale il tecnico o Viola?
«Viola era un altro grandissimo personaggio. Il suo più grande merito è stato proprio quello di scegliere Liedholm, di capire che si poteva vincere. Poi è arrivata la felice combinazione di un grande gruppo di giocatori».
Gol indimenticabili e gol da dimenticare: Klose le ha pure tolto un record.
«Cinque gol in una partita? Non me ne può fregare di meno. Sono cose che valgono per le statistiche e poi spesso li realizzi contro squadre in vacanza anche se per farli devi essere bravo. Preferisco i gol decisivi: quello contro l’Atalanta che diede alla Roma la salvezza o la doppietta contro il Dundee. Preferisco non ricordare quello contro il Liverpool».
Bruno Conti, trent’anni dopo quello scudetto cosa è rimasto?
«Una grande emozione nel rivedere una foto, un filmato. Il ricordo di una fantastica cavalcata, fatta da una squadra costruita pezzo per pezzo da Dino Viola e Nils Liedholm. Una squadra di uomini veri che poteva vincere molto di più. E’ un ricordo emozionante che mi porto dentro come quello del Mondiale».
Quale fu la svolta di quel campionato?
«Fu un anno intenso. Sicuramente dopo la sconfitta in casa contro la Juve andare a vincere a Pisa subito dopo con una grande reazione fu determinante. E a quei tempi il Pisa era una squadra di ottimo livello».
Altri ricordi
«Qualche giorno dopo la conquista dello scudetto mi vidi recapitare a Nettuno a casa dall’autista di Giulio Andreotti una medaglia d’oro con l’immagine della Bocca della Verità e un bel biglietto di complimenti. Mi piace ricordare Andreotti, al di là della politica è stato un grande personaggio. A volte veniva alle cene con la squadra in ritiro, invitato da Viola. Anche dopo il Mondiale mi scrisse due righe che conservo gelosamente e poi quando morì mio padre».
Ieri è stato celebrato lo scudetto di trent’anni fa, l’ultimo è vecchio di dodici anni. I tifosi della Roma vogliono tornare a vincere
«La società sta programmando per regalare al pubblico un futuro più roseo. I nostri tifosi sono meravigliosi, abbiamo visto anche a Firenze quanti erano al seguito della squadra. Io mi auguro che possano tornare a fare festa presto».
Quello scudetto fu anche la conquista di un grande gruppo. Il legame che c’era tra di voi lo avete alimentato nel corso degli anni?
«Siamo sempre rimasti in contatto, fino ad oggi. E quando capita cerchiamo di stare insieme, come è accaduto anche poco tempo fa. Pruzzo, Righetti, Superchi, Tancredi, Nela, Faccini li ho visti nelle scorse settimane. Vierchowod sono andato a trovarlo a Como recentemente. E Paulo (Falcao, n.d.r.), quando viene passa sempre a farci visita. Prohaska lo sento ancora. Per non parlare di Carletto (Ancelotti, n.d.r.), ci sentiamo quasi tutti i giorni. E Chierico, Jorio. Maurizio mi ha proposto di andare a giocare sulla sabbia, ma non ce la faccio. Eravamo un gruppo solido, unito, con le sue spiccate personalità».
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