NELA / ASROMALIVE.IT – Alla vigilia del match Roma-Genoa, il sito ufficiale giallorosso pubblica un’interessante intervista al doppio ex Sebino Nela, che vinse lo scudetto con la Roma nel 1983.
Sebino Nela, 11 anni con la Roma, domenica sarà acclamato dall’Olimpico come uno dei grandi campioni giallorossi del passato. Sensazioni?
«Spero che qualcuno della nuova generazione si ricordi di me… Scherzi a parte, sarà una grande emozione per uno come me che ha vestito per tanto tempo questa maglia. Il mio nome è legato a un periodo d’oro della società: scudetto, coppe Italia, una finale di Coppa dei Campioni. Ho giocato con grandissimi campioni, che mi hanno migliorato».
Arrivò giovanissimo nella Roma.
«Sì, a vent’anni. Sono nato e cresciuto a Genova. Ho fatto due anni e mezzo di Serie B. Lì si che era dura giocare a calcio. Quando arrivai nella Capitale fu tutto più semplice…».
Addirittura, perché?
«Be’, a livello ambientale, in alcuni stadi di provincia, accadevano cose allucinanti. Ti aspettavano negli spogliatoi, ti staccavano acqua e luce, ti costringevano a cambiarti nel tunnel. Di tutto e di più».
E dove?
«Un po’ dappertutto. Tipo San Benedetto del Tronto, Matera, Catania. Episodi del genere ti facevano crescere prima. Quando si diceva: “Vai in B così ti fai le ossa”, era proprio per questi motivi. Ora le cose, però, sono cambiate».
Torniamo alla Roma: fu portato a Trigoria da Liedholm.
«Vero, è lui che mi notò in una partita nelle giovanili del Genoa. Ma gran parte del merito va dato a Giorgio Perinetti che mi vide per primo e parlò di me al Barone. Io giocavo da difensore centrale, lui mi inventò terzino. Era un maestro, mi insegnò tantissimo, anche a livello di tecnica individuale».
Un esercizio che le faceva fare?
«Dato che i primi anni fui utilizzato a destra, avevo la necessità di migliorare col destro. Lui dopo l’allenamento si metteva di fronte a me e mi faceva provare questa serie di passaggi col destro. Piano piano, poi, aumentava la distanza e cominciava ad alzare la palla e la velocità dell’esecuzione. Io dovevo stoppare la palla e rimandarla a lui. Così ho imparato».
Del presidente Viola che ricordo ha?
«È stato quasi un secondo padre per me. Una persona che capiva tutti al volo, riconosceva con uno sguardo il nostro stato d’animo. Un uomo di spessore, meritò tutto quello vinse, forse avrebbe meritato qualcosa di più».
Allude alla finale di Coppa Campioni persa col Liverpool e dello scudetto sfuggito all’ultimo con il Lecce?
«Ma no, in generale. In quegli anni ci confrontavamo contro una grandissima Juve, a volte per meriti loro, a volte per demeriti nostri non siamo riusciti a mettere qualche trofeo in più in bacheca».
E a proposito di quelle due delusioni?
«C’era il rammarico per aver perso un campionato o una coppa, è vero, ma ricordo la bellezza dei tifosi, che ci manifestarono vicinanza comunque perché avevano capito che noi davamo tutto».
Lei segnò un gol in un derby del 1983, quando al Curva Sud espose una coreografia storica.
«Già, il “Ti amo” fu una dimostrazione d’amore incredibile della nostra gente. Non solo quella, mi vengono in mente i diecimila che ci seguivano quando giocavamo al Comunale contro la Juventus e l’Olimpico pieno tutte le domeniche. Ecco, un dispiacere ce l’ho oggi…».
Quale?
«Quello di non vedere più lo stadio pieno anche in partite non di cartello. Ai miei tempi era diverso».
Se dovesse scegliere tra Genoa o Roma?
«Sono due cose differenti: la Roma è stata la mia carriera professionistica. Col Genoa sono nato calcisticamente e non rinnego assolutamente quella maglia storica, del primo club in Italia».
Dunque, quell’8 maggio ’83 non le sarà dispiaciuto vincere il campionato con la Roma nella sua Genova.
«Fu una delle giornate più belle della mia carriera, chiedete a Pruzzo e Conti…».
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