(L.Di Bartolomei) – La cultura dello sport sta scemando sempre più. Sia nelle alte sfere, sempre più concentrate al business, e dal basso. Sabato scorso allo stadio di Bergamo gli steward (sicuramente in buona fede) addetti al prefiltraggio hanno chiesto ad un giovane tifoso di indossare una felpa per coprire la sua maglietta di Carlos Tevez. Lo scorso anno i bambini che occupavano i posti della “Scirea” in occasione di una squalifica comminata alla curva dei bianconeri si distinsero per una ripetuta serie di cori poco sportivi scanditi all’indirizzo dell’ultimo uomo dell’Udinese Brkic. Insomma gli stadi italiani sono fra i pochi posti al mondo dove dei bambini possono creare problemi di ordine pubblico. Nel calcio (perfetta metafora della nostra realtà) abbiamo sostituito il rispetto e l’educazione con l’applicazione meramente formale (ed eventuale) di leggi e normative coercitive. Il risultato dunque non poteva essere diverso.
Addio quindi al calcio come strumento totale di educazione e di integrazione (visto che persino i vertici federali si abbandonano a parole che pesano come pietre)? Da tanti ho sentito dire che in Italia si è sacrificato l’aspetto ludico sull’altare del business, francamente, a vedere palmares e conto economico delle nostre società (oltre al ranking della Nazionale) non mi sembra sia così. Un dato: se consideriamo l’arco temporale tra il 2008 ed il 2014 scopriamo che nelle prime venti squadre di calcio al mondo per spese di calciomercato figurano sette italiane. La cifra totale investita dai club italiani è superiore al miliardo e ottocento milioni di Euro: una cifra che fa riflettere soprattutto se paragonata ai 55 milioni/anno investiti nei vivai dalle venti squadre di Serie A. Tornando ad investire nei vivai e nelle strutture per l’educazione calcistica di base avremmo un movimento più forte e dei giovani più educati alla lealtà- Diversamente rassegnamoci.